Vocazione e innovazione. Vocazione e sperimentazione. E tradizione naturalmente, che non è qualcosa di immobile, come sottolineava spesso il conte Ugo Contini Bonacossi, tra i padri della rinascita del Carmignano alla fine degli anni Sessanta, ma una lenta linea in movimento a cui ogni generazione regala il proprio contributo. Vocazione, sperimentazione e tradizione sono le tre parole chiave per comprendere ancora oggi il Carmignano: una vino che si affina negli anni in botte e in bottiglia, tra le più piccole Doc e Docg d’Italia e forse addirittura la più piccola, duecento ettari vocati o poco più e una dozzina abbondante di produttori, ma tra le più antiche denominazioni di origine d’Europa, grazie a quel famoso bando del 1716 con cui il granduca Cosimo III de’ Medici si inventò una sorta di Doc ante litteram un secolo prima della più famosa Aoc francese. Una storia e un blasone di trecento anni ed anzi di più: perché del Carmignano parla già alla fine del Trecento il mercante di Prato Marco Datini. E ne parla bene naturalmente. Ne scrivono Domenico Bartoloni e Anton Francesco Marmi, lo loda il poeta di corte Francesco Redi e poi dal Settecento in poi, tra gli altri, Tozzetti, Villifranchi, Repetti e Marco Lastri. Lo cita anche Gabriele D’Annunzio, che in gioventù studiò a Prato.
Sulle fascette del Carmignano – la cui storia di tradizione e innovazione è stata raccontata di recente nel libro “Il vino del granduca”, scritto da Walter Fortini ed edito nel 2014 dal Comune –
è stampata in bella evidenza quella data, 1716, che ricorda la prima patente di nobiltà ma anche la Congregazione che doveva vigilare sulla bontà dei vini prodotti, per “il decoro della Nazione”. Congregazione a cui si rifà il Consorzio dei viticoltori di Carmignano rinato alla fine degli anni Sessanta, dopo una parantesi lunga quasi trent’anni che avevano confinato l’etichetta all’interno del Chianti.
“La storia è qualcosa di importante per capire il Carmignano – racconta Silvia Vannucci, proprietaria con il padre della fattoria Piaggia – e quando sono in giro per il mondo e in Italia a spiegare il nostro vino parto sempre da lì”. Perché se far sposare sangiovese e cabernet è diventata una moda, sul Montalbano lo si fa da tempi non sospetti, da quando nel Cinquecento Caterina de’ Medici divenne regina di Francia. Anche se allora forse non era cabernet franc ma carmenere, altro vitigno bordolese. Ma la sostanza non cambia.
Oggi come un tempo il Carmignano sembra più conosciuto all’estero che in Italia. Su quasi due milioni di bottiglie, almeno sei su dieci (e per qualche azienda anche più) varcano le Alpi e l’Oceano.Le trovi in Russia e negli Stati Uniti, in Cina, Giappone e Australia. Naturalmente in Inghilterra, Germania e Svizzera. “La crisi ha depresso soprattutto il mercato nazionale – spiega ancora Silvia Vannucci – . Quello americano è in ripresa, anche se lenta. Sui mercati asiatici c’è sicuramente tanto spazio”.
Accadeva anche nei secoli passati, quando casse di vini di Carmignano venivano regalati da granduchi prima a case reali e ambasciatori di me zza Europa e più tardi commercializzati. I Medici sono stati importanti. Sono loro che dal Seicento, nelle fattorie di Artimino e Le Ginestre, hanno iniziato a sperimentare in vigna e in cantina. Ma fu Ippolito Niccolini che tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento ebbe l’intuizione di quanto grandi potevano essere le potenzialità di Carmignano. Il marchese di fede giolittiana, sindaco a Carmignano, senatore a Roma, sottosegretario ai lavori pubblici nel governo Zanardelli e poi sindaco di Firenze, fu un imprenditore moderno che seppe coniugare la mezzadria con un approccio industriale all’agricoltura. Un precursore. Il Carmignano per antonomasia allora era quello delle sue cantine in piazza Matteotti, da cui ogni giorno barrocci e carri di vino partivano per la Svizzera, l’Austria, l’Ungheria e la Germania e più tardi anche oltre. Poi, dopo la morte, la grande fattoria fu divisa. Nel 1929 chiusero anche le cantine e di lui si perse quasi il ricordo. (wf)
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