Sul Montalbano, come da tante altre parti, la Pasqua era un tempo legata soprattutto alle funzioni religiose. Dopo i quaranta giorni della Quaresima in cui sacerdoti e predicatori avevano parlato con insistenza di colpe, penitenze, giudizio e morte, arrivava la festosa Domenica delle Palme, e poi il sepolcro da preparare tra il lunedì e il mercoledì con i fiori raccolti di casa in casa e poi al sabato la corsa degli scaldini, di nuovo da un’abitazione all’altra, con i tizzoni di fuoco benedetto.
Per Pasqua invece i bambini si divertivano a rotolare nei prati le uova sode che avevano decorato con le matite o con la carta velina. Uno dei luoghi più ambiti per “ruzzolar l’ovo” era l’antico acquedotto mediceo, popolarmente denominato “i condotti”.
Tutto questo accadeva nel paese di Carmignano fino a metà del Novecento. Ve lo raccontiamo prendendo di nuovo in prestito i ricordi dello scomparso Mauro Bindi, memoria storica del capoluogo, deceduto a novantadue anni nel dicembre 2015, un anno dopo aver dato alle stampe i suoi trascorsi biografici e del paese. Erano tempi lontani e diversi, in cui i divertimenti erano pochi ma semplici e genuini e il senso del sacro ed il rispetto nei confronti delle tradizioni religiose avvertiti in maniera forse più ingenua ma sicuramente più partecipe ed autentica di adesso.
Olivi benedetti per la casa, le stalle e i campi
Per la Domenica delle Palme si tornava a gremire la chiesa con un senso di festosa partecipazione, brandendo i ramoscelli di olivo e ginepro e aspettando con trepidazione la benedizione, allorché tutti i presenti sollevavano sopra la testa i propri mazzi e li agitavano allegramente. Dalla porta del chiostro della pieve di San Michele Arcangelo un lungo corteo processionale si riversava sul sagrato e si raccoglieva davanti all’ingresso dell’edificio, intonando il “Pueri Hebraeorum”; il portale era chiuso e vi si bussava ripetutamente, mentre i coristi, posizionati sia all’interno che all’esterno della chiesa, si alternavano nel cantare le strofe del “Gloria laus et honor tibi”; quando infine i battenti si aprivano all’improvviso, la gente rientrava e faceva ondeggiare con gioia i rami appena benedetti. In un’epoca in cui una larga fetta della comunità parrocchiale era composta da contadini, le frasche erano destinate ad essere collocate non solo nelle case ma anche nelle stalle e sui confini poderali, ad invocare la protezione divina sia per la famiglia che per il bestiame e il terreno.
Il Sepolcro da preparare
Dal lunedì al mercoledì si svolgevano i preparativi per allestire il Sepolcro del Signore nell’oratorio di San Luca. I ragazzi andavano in giro con i carretti a ritirare i vasi di fiori nelle abitazioni del paese, mentre le donne decoravano grandi rami di alloro con rose di carta colorata, ed alla fine grazie al contributo di vasti strati della popolazione in San Luca nasceva un magnifico giardino ricco di siepi e di aiuole, che circondava con il suo rigoglio il maestoso altare settecentesco. L’apparato era reso ancora più suggestivo dalla presenza di una moltitudine di lucerne fiorentine alimentate ad olio, che venivano disposte in mezzo alle piante e ai fiori ed illuminavano la scena con le loro tremule fiammelle.
Il Giovedì Santo anche il Campano si zittiva
Nella tarda mattinata del Giovedì Santo aveva luogo la celebrazione della Cena del Signore, al termine della quale il Santissimo Sacramento veniva traslato dalla pieve all’oratorio e riposto sopra il Sepolcro predisposto nei giorni precedenti. Dopo il canto del “Gloria” le campane venivano legate affinché fosse rispettato il silenzio più assoluto fino al “Gloria” del Sabato Santo. Anche l’orologio del Campano veniva fermato perché non battesse più le ore. Da quel momento in poi le funzioni venivano annunciate dalle “raganelle” che i chierichetti azionavano per le piazze e le strade dell’abitato.
Nel pomeriggio in chiesa il “Mattutino delle tenebre” precedeva il momento della predica. Intorno agli altari laterali si affollava una moltitudine di ragazzi in attesa di “battere l’uffizio”, ovverosia di percuotere le predelle di pietra con dei lunghi bacchettini “grigiolati” – intagliati cioè in maniera tale che la corteccia bruna si alternasse alla polpa bianca -, in ricordo della flagellazione di Cristo. Quando sul gradino più alto dell’altar maggior venivano spente le candele poste sul grande candelabro triangolare, cessavano i canti e scattava il fragoroso battito dei bastoncini. Al termine della celebrazione tutti gli altari venivano spogliati. Di notte una affollatissima processione penitenziale si snodava dalla pieve all’oratorio e viceversa, mentre si intonavano il “Miserere” e lo “Stabat Mater” e ci si apprestava alla lunga notte di veglia presso il Sepolcro.
La Passione recitata in casa
Il Venerdì Santo trascorreva quasi inosservato. Le funzioni avevano luogo al mattino presto, con discreta partecipazione da parte dei fedeli, ma senza particolare solennità. Da quel momento in poi si attendeva alla pulizia e all’addobbo della chiesa, che doveva essere adeguatamente preparata per il Sabato Santo e la Domenica di Pasqua. In molte case le donne si riunivano in gruppo per meditare la Passione di Cristo e recitare le orazioni in forma privata.
La corsa degli scaldini …
Il sabato la pieve si presentava abbellita con ogni genere di ornamenti. Per l’occasione venivano utilizzati gli arredi liturgici più ricchi e preziosi in dotazione alla parrocchia, dalle tovaglie finemente ricamate ai candelabri sontuosamente decorati, passando per i lampadari d’argento. Tutta la chiesa era rischiarata dai lumi e risplendeva del barbaglio degli oggetti sacri che irradiavano ovunque i loro abbacinanti riflessi. A metà mattina i celebranti – un numero piuttosto elevato di sacerdoti -, preceduti dai confratelli della Compagnia del Santissimo Sacramento e dai chierichetti, fuoriuscivano sul sagrato per dare inizio ai riti del Sabato Santo, che prendevano l’avvio con la benedizione del fuoco. Gruppi di ragazzi muniti di uno scaldino pieno di brace accesa – il cosiddetto “veggiolo” – aspettavano che si consumasse il rituale per poi correre di abitazione in abitazione a portare il fuoco benedetto. Quasi tutte le famiglie prendevano un tizzo per accendere il fornello di casa e davano un soldo o un diecino al ragazzo che l’aveva portato.
— e poi campane a festa, mortaretti e spari di fucile
Dopo la benedizione del fuoco i chierici rientravano nella pieve ed uno dei sacerdoti, recando in mano un’asta fiorita con tre candele fermate alla sommità, le accendeva ad una ad una dopo aver cantato per tre volte con tono di voce sempre più elevato il “Lumen Christi”. Con una delle tre candele veniva acceso anche il cero pasquale. A quel punto uno dei celebranti proclamava a gran voce l'”Exultet”. Giunto il momento delle litanie dei Santi, i presbiteri si stendevano sui gradini dell’altar maggiore e l’assemblea si inginocchiava. Al “Gloria” si scioglievano le campane. Mentre all’interno della chiesa veniva suonato l’organo e si scuotevano i campanelli, all’esterno prendeva a rintoccare anche il Campano, e al contempo si udivano rimbombare perfino scoppi di mortaretti e spari di fucili. Il tripudio era generale. Si percepiva un comune senso di gioia e di liberazione e si usciva in strada a fare festa.
Per tre giorni gli uomini si astenevano dal lavoro, e anche chi durante l’anno non frequentava le funzioni per Pasqua non mancava di andare alla messa. Le celebrazioni erano quattro: la messa di notte e le tre del mattino. Per le massaie non c’era una grande possibilità di scelta: l’unica funzione cui potevano permettersi di presenziare era quella delle 7 e 30, perché dal pomeriggio del sabato alla tarda mattinata della domenica erano impegnate a preparare il pranzo pasquale, che normalmente si componeva di: crostini con i fegatini, minestra in brodo e agnello in umido con gli erbi. Su tutte le mense era immancabile l’uovo sodo benedetto. (Barbara Prosperi)