Pur non avendo abitato nel territorio, Angiolo Frosini ha più volte lambito Carmignano e frequentato Poggio a Caiano (quando entrambi i centri formavano ancora un unico Comune), essendo nato e cresciuto nella campagna di Tavola, tra Prato e Seano, avendo lavorato alla Catena, tra Quarrata e Seano, ed essendosi recato più volte a Poggio a Caiano per andare a trovare Ardengo Soffici, che aveva conosciuto in occasione di una mostra d’arte.
Angiolo era nato nel 1898 in una casa colonica di Tavola da una famiglia di contadini, composta da gente semplice ma operosa ed onesta, solida nei valori e nei principi, ed era riuscito a diplomarsi maestro in un’epoca in cui erano pochi a potersi permettere di studiare. A quei tempi infatti la possibilità di accedere all’istruzione non era alla portata di tutti, e solitamente in una famiglia era il figlio più piccolo che veniva destinato allo studio, e questo è proprio quello che successe ad Angiolo, che era l’ultimo di cinque fratelli.
Oltre all’amore per l’insegnamento il giovane coltivava quello per le arti figurative, così aveva iniziato a disegnare, a dipingere (paesaggi soprattutto) e a modellare figure con la creta e con il gesso. Di lui ci parla oggi il nipote Alberto Bonechi, pratese da poco trasferitosi a Carmignano, ma legato al territorio dalle radici della famiglia paterna, originaria di Colle, il piccolo borgo diviso tra Seano e Quarrata; operaio ricco di interessi culturali, appassionato di musica, di arte, di storia e di modellismo, è attivo in diverse associazioni locali e di recente ha deciso di portare alla luce la vicenda umana e professionale del nonno materno, un uomo e un artista che a suo dire merita di essere ricordato.
“Mio nonno Angiolo in campo artistico era sostanzialmente un autodidatta – racconta Alberto –, ma questo non gli impedì di partecipare ad alcune esposizioni di rilievo, come ad esempio quelle che si tennero negli anni Trenta a Prato, a Firenze e a Roma, dove partecipò con diverse sculture di sua creazione”. Nel corso di queste rassegne Angiolo conobbe Ardengo Soffici ed espose con artisti del calibro di Leonetto Tintori, Oscar Gallo, Arrigo Del Rigo, Arrigo Rigoli, Quinto Martini ed altri ancora, mettendosi in luce per la resa realistica, la freschezza e l’originalità delle sue sculture, che ricevettero anche delle recensioni lusinghiere da parte di alcuni esperti del settore.
“Ottime le tre teste in terracotta di Angelo Frosini – si legge in un articolo pubblicato su “La Nazione” nel settembre del 1935, dedicato alle mostre d’arte della Settimana pratese di quell’anno e firmato dall’autorevole critico d’arte Aniceto Del Massa –: sono le prime sue opere e già il nome del Boncinelli vien fatto anche dai rigidi custodi della fama del disgraziato grande scultore: è certo che il Frosini non riprende i modi del Boncinelli né di altri, ma per intima forza e per l’affinatissima sensibiltà e chiarezza d’espressione palese in questi suoi tre pezzi egli sorprende”.
Angiolo, che aveva subito l’ascendente di Soffici, dopo avere stretto amicizia con lui iniziò a frequentarlo recandosi spesso a Poggio a Caiano, dando vita ad una consuetudine che dovette durare per lungo tempo. “Saranno stati probabilmente gli anni Cinquanta – continua Alberto –, mia mamma allora era piccola e non aveva la piena consapevolezza di chi fosse Soffici, ma si ricordava che il nonno andava a fargli visita perché tutte le volte puntualmente menzionava “Ardengo”, un nome che certamente non era comune e che per questo motivo rimase impresso nella sua mente di bambina”.
Per quanti avevano l’opportunità di conoscere l’uomo oltre che l’artista, frequentandolo nella sua quotidianità al di fuori delle rassegne d’arte e dei cenacoli culturali, come gli abitanti di Poggio a Caiano, Soffici era semplicemente “il sor Ardengo”, il toscanaccio dalla battuta tagliente che si fermava all’osteria a bere un bicchiere di vino rosso e a fumare il sigaro, come uno qualunque dei suoi compaesani, innamorato dei campi, delle strade e delle case del Poggio, riprodotti infinite volte sulle sue tele, tanto che una volta ebbe a dire: “Alla fine io dipingo sempre lo stesso posto”.
Angiolo alternò l’attività in campo artistico al lavoro di insegnante, e con il passare del tempo, pur avendo gradualmente ridotto l’operato in veste di pittore e scultore, tornò a perfezionare e in qualche caso rielaborò alcune delle sue vecchie creazioni (ad esempio il “Balilla”, che negli anni Trenta era stato plasmato in omaggio al regime fascista, venne modificato nell’abbigliamento e si trasformò nello “Scolaro”) e ne fuse alcune in bronzo, come il “Contadino” che oggi è gelosamente custodito da Alberto. Un’altra sua scultura, che ritrae un uomo raffigurato in età senile, si trova attualmente nella collezione d’arte di Leonetto Tintori. Tra i disegni conservati da Alberto spicca una serie di teste infantili, i cui soggetti erano gli alunni di Angiolo, immortalati dal maestro durante le ore di lezione. (Barbara Prosperi)