Di Carmignano Silvana si ricorda una stanza, un soffitto e la paura di essere traditi o riconosciuti da qualche fascista locale: un senso di pericolo incombente che per tutto il giorno non abbandonava lei, che aveva appena dieci anni, ma anche la mamma e la sorella Mirella, di quattro anni più grandi. Tre donne in fuga, in bicicletta. Una storia di vita randagia nei boschi, cinquantasette anni fa, quando in Italia scoppiò la caccia all’ebreo.
Silvana Calò, la mamma e la sorella erano fuggite da Firenze dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, per sottrarsi alla retate dei tedeschi. Il babbo era morto quattro anni prima: pochi mesi dopo le leggi razziali avevano costretto la moglie ad abbandonare l’attività di importazioni di lana dalla Libia e a chiudere l’azienda di famiglia.
Si rifugiarono per qualche tempo a Signa, ospiti della famiglia Carpi, poi a Carmignano in una piccola stanza in affitto. Da lì nell’aretino – nei boschi di Cacciano, a due passi dal villaggio dove si consumò l’eccidio di Civitella Val di Chiana – e quindi, prima ancora che la guerra finisse, in Israele. Una storia come quella di tanti ebrei in quel periodo, fortunatamente a lieto fine.
Silvana, che oggi ha 76 anni, l’ha raccontato in queste settimane a tanti in Toscana: protagonista assieme al marito Saul Ventura del libro “Una famiglia” del giornalista e scrittore fiorentino Paolo Ciampi. Lo ha raccontato a giovani e meno giovani, prima di tornarsene di nuovo in Israele. Non si ricorda come si chiamava la famiglia che li ospitò a Carmignano, dove non è più tornata. Chissà che leggendo la storia qualcuno magari non riesca a colmare quel vuoto. Chiamateci, se avete qualche indizio. Silvana non si ricorda troppo bene neppure dove di preciso fosse quella casa. All’inizio del borgo, forse. Ma la paura di quei giorni, quella proprio non se l’è scordata.
“Spesso ci rifugiavamo anche nei boschi – racconta – E con un macinino da caffè la mamma tritava una manciata di chicchi di grano raccolti nei campi. Con quell’intruglio ci tiravamo un po’ su”. Proprio nei campi una volta le SS le trovarono, ma le scambiarono per contadine e non le arrestarono. Dovevano fuggire dai tedeschi che li volevano deportare. Dovevano scappare alle bombe a volte fuori controllo degli alleati. Ma la mamma e la sorella, resa più bambina da una treccina di capelli acconciata ad arte, dovevano stare attenti anche ai soldati che, come spesso accade in molte guerre, si volevano approfittare di loro come donne, con la scusa di aver bisogno di qualcuno in cucina. Un giorno la madre era già stata portata via da un tedesco, ma il pianto di Silvana commosse il soldato.
Nel diario la sorella racconta dei molti chilometri fatti ogni giorno in bicicletta: la stessa bicicletta con cui arrivarono anche a Carmignano. E per lei, malata e debilitata, non deve essere stato facile. “Penso che la morte sia la cosa più desiderabile” scriveva. Una volta una pattuglia tedesca li trovò nascoste sotto un’arca di un ponte insieme ad altri sfollati. Furono messe in piedi davanti a un muro, scambiati per partigiane, e solo all’ultimo momento riuscirono a salvarsi.
Da Carmignano fuggirono perché la madre temette che qualcuno le avesse riconosciute. Un sospetto: meglio non rischiare. E in pieno inverno, dopo una lunga strada, arrivarono alla vigilia del Natale del 1943 a Badia Agnano nell’aretino, dove lo zio Giorgio si era rifugiato con la famiglia. Gli ultimi furono forse i mesi più duri, tra la fame e i rastrellamenti continui. A luglio, finalmente, arrivano gli alleati e tra loro i soldati della brigata ebraica e delle truppe ausiliare palestinesi, con le divise contraddistinte dalla stella di David. (w.f.)
(L’articolo è stato pubblicato sul Tirreno di Prato l’8 marzo 2010)