La nomina di archiatra granducale, o protomedico che dir si voglia (ovvero il medico più importante di corte), spalancò a Francesco Redi le porte di una brillantissima carriera, anche grazie alla sua eccezionale abilità di destreggiarsi nel doppio ruolo di scienziato e cortigiano.
Benché non lavorasse in una struttura universitaria od ospedaliera né possedesse un laboratorio privato, egli seppe mettere pienamente a frutto i privilegi che gli derivavano dalla sua condizione, ed usufruì delle strutture offerte dalla corte medicea – come ad esempio la Spezieria e la Fonderia – per dedicarsi alla ricerca e agli esperimenti scientifici. Attraverso il Serraglio e le cucine granducali poteva inoltre disporre di una quantità eccezionale di animali – pesci, selvaggina, esemplari di specie esotiche – sui quali si esercitava nella pratica anatomica e negli studi tossicologici. Le indagini che condusse sul veleno delle vipere a questo proposito risultano esemplari, dato che per portarle a termine effettuò oltre trecentocinquanta sperimentazioni eseguite su altrettanti diversi esemplari del rettile.
Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta del Seicento i suoi interessi si appuntarono in maniera particolare sugli insetti e sui parassiti, e le investigazioni che compì a riguardo sfociarono in due trattati di stupefacente modernità: nelle “Esperienze intorno alla generazione degl’insetti”, del 1668, dimostrò la falsità della teoria della generazione spontanea degli insetti, provando infatti che le mosche nascono dalla carne putrefatta solo quando altre mosche vi abbiano depositato le uova; nelle “Osservazioni intorno agli animali viventi che si trovano negli animali viventi”, del 1684, sulla scorta di una approfondita e metodica ricerca svolta sui parassiti sia umani che animali, gettò le basi della odierna parassitologia.
I doveri connessi alla sua carica tuttavia imponevano all’aretino una serie estenuante di obblighi ed incombenze, che non si conciliavano facilmente con la sua passione per la scienza, cui finivano per sottrarre tempo prezioso. La vita di corte si svolgeva su un cerimoniale che si ripeteva con uguale monotonia, e tra i rituali da rispettare c’era quello delle trasferte – estive o invernali – nelle varie residenze extraurbane: Poggio a Caiano, Artimino, Montelupo, Pisa, Livorno e via elencando. Oltre a ciò allo scienziato veniva richiesto di deliziare gli ospiti del granducato con degli esperimenti che si presentassero come dei veri e propri spettacoli teatrali, colmi di scene ad effetto che dovevano suscitare nel pubblico sorpresa e meraviglia.
Pur rammaricandosi del tempo tolto alla ricerca scientifica ed alle sue amate letture, il Redi si assoggettava di buon grado a queste richieste, con la consapevolezza che grazie ai suoi committenti poteva condurre una vita piena e ricca di soddisfazioni. Sebbene avesse un carattere introverso, riservato, controllato, all’occasione sapeva essere brillante, affabile, ossequioso, e talvolta dava estro ad una spiccata vena burlesca che lo portava ad architettare ogni genere di beffe, come quando inserì nella terza edizione del Vocabolario della Crusca, edita nel 1691, centinaia di falsificazioni che sarebbero state smascherate solamente dopo la sua morte.
Proprio durante un pranzo collegiale degli Accademici della Crusca tenutosi nel 1666, Redi recitò una quarantina di versi nei quali decantò alcuni vini toscani. Considerato il successo riscontrato dalla composizione, egli tornò a lavorarci con aggiunte e correzioni negli anni seguenti, arrivando a pubblicare nel 1685 una versione definitiva di ben novecentottanta versi. Nel “Bacco in Toscana” – questo il titolo dell’opera – l’autore immaginava che il dio del vino e la sua sposa Arianna, accompagnati dal loro festoso seguito di creature mitologiche, si fossero fermati nella villa del Poggio Imperiale ed avessero passato in rassegna con grandi apprezzamenti i più importanti vini della regione, dalla Vernaccia al Chianti, dal Montalcino al Montepulciano, passando per quelli di Carmignano ed Artimino.
Forse per Francesco Redi dedicarsi alla poesia ed agli scherzi costituiva una valvola di sfogo necessaria a sostenere i numerosi e gravosi impegni che riempivano le sue giornate, divise tra l’esercizio della professione medica, la sperimentazione scientifica e gli obblighi di corte. Era forse anche un modo per schivare le preoccupazioni legate ai suoi fratelli, che lo tempestavano di continue e pressanti richieste di denaro, e per sfuggire alla malinconia e alla solitudine che lo attanagliavano quando si ritirava nelle sue stanze, poiché è noto che per gran parte della sua esistenza visse da solo, senza il conforto di affetti significativi.
Da solo era vissuto, e da solo morì. Spostatosi a Pisa alla fine del gennaio 1697 al seguito della corte granducale, Redi prese alloggio come di consueto nella stanza che gli era riservata all’interno del Palazzo Reale, situato sul Lungarno mediceo, e la mattina del 1° marzo vi fu trovato cadavere dal proprio cameriere personale. L’autopsia stabilì che era stato vittima di un attacco apoplettico, ovvero un’emorragia o ischemia che colpisce il cervello e ne arresta immediatamente le funzioni. Dopo essere stata imbalsamata, la salma fu trasportata da Pisa ad Arezzo, passando per Firenze, e, secondo quanto indicato dalle disposizioni testamentarie, venne tumulata nella chiesa di San Francesco. Nel 1812 il nipote Francesco Saverio fece trasferire i resti dell’antenato nella cattedrale cittadina, tuttavia dopo la traslazione fu persa ogni traccia delle spoglie del grande scienziato.
Il suo sterminato patrimonio archivistico e bibliotecario, composto da una straordinaria collezione di libri, codici antichi, documenti manoscritti e lettere, fu disperso dagli eredi ed è oggi in parte rintracciabile nella Biblioteca Comunale e nell’Accademia Petrarca di Arezzo, nella Biblioteca Medicea Laurenziana, nella Biblioteca Riccardiana, nella Biblioteca Marucelliana e nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze. (Barbara Prosperi)
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