E’ tempo di Carnevale, e per raccontare come si svolgeva la festa nel corso del Novecento prendiamo a prestito i ricordi di un carmignanese da poco scomparso. Lo scorso 5 dicembre 2015 si è spento infatti Mauro Bindi, classe 1923, memoria storica per eccellenza del paese. Detentore di una facoltà mnemonica prodigiosa e di un vastissimo bagaglio culturale, Mauro era il depositario di un patrimonio sconfinato di conoscenze, ricordi ed aneddoti riguardanti la storia, le tradizioni, i personaggi del territorio, che alimentava ed approfondiva continuamente tenendo la mente in perpetuo esercizio. Negli ultimi anni di vita, 91 anni, per ingannare il tempo aveva affidato le sue memorie alla carta, e nel 2014 i suoi amici del Gruppo d’Incontri Il Campano le avevano trascritte e pubblicate in un piccolo libro di fattura artigianale. Tra i tanti argomenti trattati all’interno del volume il Bindi aveva parlato anche del Carnevale, mettendo in risalto le profonde differenze che intercorrono tra il modo in cui viene festeggiato oggi e il modo in cui veniva festeggiato ai suoi tempi.
Riavvolgendo i ricordi fino ai giorni della sua giovinezza, Mauro rammentava infatti che in linea generale le forme di divertimento in auge ai suoi tempi erano estranee alla cultura del cosiddetto sballo, e che pertanto – fatte salve rare e sporadiche eccezioni – anche i festeggiamenti legati al Carnevale non derogavano da questa regola salutare. “Non c’erano sale dal rumore assordante – scriveva a tale proposito -, non si attendevano le ore piccole per il ritorno a casa, ed il consumo degli alcolici era abbastanza contenuto”.
In linea con il detto del poeta latino Orazio, che asseriva che “Semel in anno licet insanire” (“Una volta all’anno è lecito far follie”), anche i giovani dell’epoca si sentivano legittimati a dedicarsi a qualche allegra intemperanza, tuttavia conservavano il senso della misura e dell’equilibrio, e soprattutto mantenevano in maniera scrupolosa il rispetto nei confronti delle tradizioni e delle osservanze di natura religiosa, che al tempo erano sentite e vissute in maniera più partecipata e profonda di adesso.
Benché non si tenesse un pubblico corso di maschere né fosse prevista la sfilata di carri allegorici, a Carmignano non erano pochi – particolarmente tra i bambini e gli adolescenti – quelli che si abbigliavano con un costume, e nelle giornate del lunedì e del martedì grasso era possibile vedere scorrazzare per le strade e le piazze dell’abitato gruppi più o meno consistenti di ragazzi in maschera che si spostavano di casa in casa chiedendo ospitalità e qualche genere di ristoro. A scanso di equivoci è opportuno specificare che quando si parla di costumi ci si riferisce più che altro a dei travestimenti rudimentali che venivano ottenuti mediante l’utilizzo di capi di abbigliamento abitualmente prelevati nelle case, oppure a delle semplici mascherine che coprivano la parte superiore del viso, giacché l’acquisto o il noleggio di costumi veri e propri in relazione ai tempi era assolutamente proibitivo.
Nel pomeriggio di Carnevale nella pieve di San Michele Arcangelo veniva celebrato un rito particolare di cui non erano ben chiare le origini e le motivazioni, e che nonostante ciò richiamava un consistente numero di fedeli, allorché presso la Cappella di Sant’Antonio (l’attuale battistero, posto sul lato sinistro del presbiterio) veniva scoperta e destinata all’omaggio dei partecipanti alla funzione l’immagine del santo di Padova. Con ogni probabilità si trattava di un memoriale connesso alle pratiche devozionali proprie dell’omonima Aggregazione presente in parrocchia nei secoli scorsi, ma perché tale cerimonia si svolgesse nel giorno del martedì grasso non è dato sapere.
Verso l’imbrunire grossi falò illuminavano a giorno la campagna in ogni dove, in ossequio all’usanza arcaica che intendeva “bruciare il Carnevale” per dare l’addio ai rigori dell’inverno. In tale frangente solitamente veniva dato alle fiamme con un rituale di sapore espressamente propiziatorio un fantoccio di paglia rivestito di vecchi stracci – denominato anche “la vecchia”, perché spesso gli veniva conferito l’aspetto di una strega brutta e ricurva – con l’auspicio che la buona stagione arrivasse presto e fosse foriera di abbondanti raccolti.
La sera era dedicata perlopiù ai banchetti e alle feste danzanti. In rapporto alle ristrette possibilità economiche del periodo (quando peraltro anche la disponibiltà dei mezzi di locomozione era scarsa e gli spostamenti estremamente ridotti), un modesto locale liberato per l’occasione oppure un salotto sufficientemente spazioso all’interno di un’abitazione privata normalmente risultavano più che idonei per soddisfare la voglia di divertirsi, e in un clima in cui ciascuno tendeva ad accontentarsi di quello che aveva non erano frequenti le manifestazioni di invidia e di dissenso nei confronti di quanti potevano concedersi l’accesso alle poche sale di ritrovo presenti nel circondario, dove si consumavano cene sontuose e si ballava con la musica di un’orchestrina.
Allo scoccare della mezzanotte la campana grossa della chiesa annunciava con i suoi lunghi rintocchi l’inizio della Quaresima. A quel segnale cessavano i banchetti, le libagioni, i balli, le feste, gli scherzi, gli schiamazzi. Nella notte silenziosa la gente faceva ritorno a casa ed iniziava a prepararsi al lungo periodo di penitenza e di digiuno che prendeva l’avvio col mercoledì delle Sacre Ceneri, che con la suggestiva cerimonia del “Memento, homo” (“Ricordati, uomo, che sei polvere, e che polvere ritornerai”) richiamava a tutti la caducità dell’essere umano.
Forse proprio perché con l’apertura della Quaresima cominciava un lungo periodo di astinenza dalle carni destinato a durare quaranta giorni, a dispetto di quello che si è portati a pensare oggi, il piatto più ambito del Carnevale non era costituito dai dolci (cenci, chiacchiere o frappe che dir si voglia, oppure frittelle o specialità di altro tipo) ma dalle polpette di magro bovino. Allora il consumo della carne, specialmente di quella di manzo, e ancor più dei pezzi di taglio pregiato, era molto limitato ed erano veramente poche le famiglie che potevano permettersi questa pietanza. Mentre era relativamente facile trovarla sulle mense della maggior parte delle case coloniche, per le famiglie degli operai, dei braccianti, dei pigionaoli rimaneva spesso un sogno da accarezzare, e nel migliore dei casi non restava loro che accontentarsi delle varianti realizzate con gli avanzi del bollito o con il ripieno di pollo, di coniglio oppure di patate. (Barbara Prosperi)