Quando a Carmignano per lo più si coltivava la terra, soprattutto nel secondo dopoguerra, le occasioni per divertirsi erano poche e la Pasqua era uno dei rari momenti nell’anno in cui ci si poteva permettere un divertimento in più e interrompere il lavoro dei campi. Era Pasqua non solo la domenica, ma dal giovedì al lunedì.
“Il giovedì santo era considerato come un giorno festivo, anche se di fatto non lo era” ricorda Santina Borgioli, 78 anni. Il giovedì (santo) aveva inizio la passione di Gesù Cristo. “E per andare a messa potevo indossare l’abito buono” aggiunge. Si usciva a messa, per cinque giorni, ma non il sabato (almeno le donne). “Dovevamo aiutare a preparare il pranzo per il giorno dopo – dice Piera Ponziani, anche lei 78 anni – e così non andavamo alla veglia”. Tutto questo accadeva ancora negli anni Cinquanta, quando le due donne, nate entrambe a Carmignano, erano ragazzine.
Si faceva festa. Ma non immaginatevi di trovare in tavola il tradizionale uovo di Pasqua di cioccolato. “Noi bambini – ricorda Piera – ci divertivamo ad assodare le uova e a decorarle sull’esterno a spicchi colorati con le matite e con la carta velina”.
C’erano altri usi e costumi particolari. “Durante la messa del giovedì santo gli uomini dovevano ‘battere l’officio’ con dei rami di olivo lavorati a mano. Era un modo per rievocare le frustate date a Cristo nel percorso verso il monte Golgota” racconta ancora Santina. Di fatto i rami di olivo venivano intagliati in modo tale che la buccia verde si intrecciasse all’anima bianca e poi battuti sulla pedana dell’altare. Il venerdì santo era invece dedicato alla preghiera e le donne si riunivano in casa, spesso anche con le vicine, per recitare le preghiere alla Vergine Maria.
Poi arrivava il momento di sedersi a tavola. “Per Pasqua – dice Santina – ci potevamo permettere i crostini con i fegatini, il brodo con la ‘grandinina’ (la pasta all’uovo in chicchi piccoli) e l’uovo sodo e come secondi piatti la gallina lessa e l’agnello in umido accompagnato dagli ‘erbi’ amari saltati, principalmente cicerbite, radicchio ballotto, rosolacci, grifi di porco e strigoli, che raccoglievamo nei campi del podere. A fine pranzo chiudevamo con i biscotti, che avevamo cotto dopo l’infornata del pane che per tradizione doveva essere fresco”.
Per il pranzo di Pasqua era consentito permettersi qualche “stravizio” rispetto all’ordinario. Nel quotidiano infatti le risorse economiche scarseggiavano e si viveva con il poco a disposizione. Non mancava però l’ironia: così, poiché cibi come il manzo erano pregiati e costosi, c’era il detto abbastanza diffuso che ‘le bistecche erano scappate tutte a Firenze’.La Pasqua in ogni caso non si riduceva soltanto ad un pranzo. Era un’occasione in più per stare riuniti in famiglia, visto che i legami di parentela erano molto più sentiti rispetto ad oggi. “A casa mia – rammenta Santina – eravamo dieci, ma la domenica di Pasqua potevamo essere molti di più: il momento più bello era quando arrivavano i parenti e in particolare le zie”
Al di fuori della chiesa non c’erano grandi divertimenti e si passava il tempo con poco e in maniera artigianale. “Nel pomeriggio della domenica andavamo nei campi a rotolare le uova sode che avevamo decorato, finché non si rompevano” – ricorda Piera.
Il lunedì di Pasqua, per chi poteva, c’era poi la Beata a Signa con le giostre e le bancarelle dei dolci. “Noi purtroppo però non potevamo andarci – conclude Piera – perché allora mancavano i mezzi e dovevamo muoverci a piedi In più eravamo piccole e anche una volta cresciute non ci era consentito uscire da sole”. (Valentina Cirri)