E’ la prima e fino ad ora unica biografia che sia stata dedicata ad Enzo Faraoni, quella scritta da Maria Pagnini e presentata nella Sala Consiliare del Comune di Carmignano durante la settimana di iniziative legate alla commemorazione dei caduti dell’11 giugno (vedi “In ricordo dei partigiani” di Valentina Cirri). Faraoni, artista di calibro scomparso nell’ottobre del 2017 (vedi “E’ morto Faraoni, l’ultimo dei ragazzi di Bogardo Buricchi” di Walter Fortini), fu infatti uno dei giovani che nel 1944 si unirono alla brigata di partigiani capitanata da Bogardo Buricchi, che poco dopo la mezzanotte dell’11 giugno di quell’anno fecero saltare un convoglio di otto vagoni carichi di tritolo nei pressi della stazione di Carmignano, vicino a Poggio alla Malva, in quello che viene unanimemente considerato l’episodio più importante della Resistenza non soltanto del territorio mediceo ma anche del comprensorio pratese (vedi “L’11 giugno 1944” di Walter Fortini), a cui nel libro viene dato ampio spazio.
Il volume, intitolato “La pace della sera” e pubblicato per la prima volta nel 2010, ha visto la luce dopo circa due anni di lavoro costituito in gran parte da lunghe conversazioni avvenute tra l’autrice e il pittore, che ha costantemente supervisionato il testo, tanto che in ultima analisi il libro si può quasi ritenere un’autobiografia. “Ho iniziato ad andare a casa di Faraoni nel 2008 – ha spiegato al pubblico Maria Pagnini, bibliotecaria con la passione della ricerca storica –; ci incontravamo due volte a settimana ed io ad ogni appuntamento registravo quello che Enzo mi raccontava e poi lo trascrivevo fedelmente; quando tornavo da lui gli rileggevo tutto e spesso lui mi interrompeva per chiedermi di modificare alcune parti dell’esposizione”.
Faraoni, che negli ultimi anni di vita aveva perso la vista a causa di una malattia, già in quel periodo non vedeva quasi più ed era impossibilitato a leggere e a scrivere. Su invito di Maria Pagnini, che era intenzionata ad approfondire la conoscenza di alcuni particolari legati ai fatti dell’11 giugno, aveva dunque iniziato a parlare della sua vita partendo dall’infanzia per arrivare alla vecchiaia, in un lungo racconto che compendiava circa novant’anni di eventi non soltanto privati ma anche pubblici. Enzo Faraoni era nato il 20 dicembre del 1920 a Sarzana, in provincia di La Spezia, da genitori di origine toscana, ultimo di tre figli. Il padre era impiegato presso le Ferrovie Statali e per questo motivo la famiglia si spostava spesso a seconda del variare dei suoi incarichi di lavoro. Dopo aver soggiornato a Sarzana e a Montelupo Fiorentino i cinque si erano trasferiti a Carmignano, dove il padre di Enzo era stato nominato capostazione. In un primo momento avevano occupato l’appartamento situato al primo piano della stazione, a breve distanza dallo stabilimento della Nobel, in prossimità di Poggio alla Malva, poi dopo l’8 settembre del 1943 e l’inizio dei bombardamenti erano finiti come sfollati a Poggilarca.
Nel frattempo Enzo aveva studiato all’Istituto d’Arte di Porta Romana, e dopo essersi diplomato in Arti Grafiche aveva anche conseguito il magistero specializzandosi in Pittura. Entrò poi in contatto con Ottone Rosai, di cui divenne assistente, e infine passò ad insegnare all’Accademia di Belle Arti. Nel 1944 intanto si era avvicinato a Bogardo Buricchi, che frequentava assiduamente il paese di Poggio alla Malva perché si recava con una certa regolarità a trovare don Benvenuto Matteucci (vedi “Matteucci, vescovo “dimenticato”” di Walter Fortini), priore della parrocchia di Santo Stefano. Il motivo e la dinamica dell’attentato dell’11 giugno, di cui Faraoni fu parte attiva, sono già stati ampiamente analizzati e descritti e risultano pertanto noti (vedi “L’11 giugno” di Walter Fortini), tuttavia ci sono alcuni dettagli che la testimonianza rilasciata dall’anziano maestro a Maria Pagnini ha permesso di conoscere con maggiore precisione e ricchezza di particolari.
Com’è risaputo, l’artista prese parte alla fase più delicata e rischiosa dell’azione insieme ai fratelli Bogardo e Alighiero Buricchi e ad Ariodante Naldi. Fu lui infatti che tolse i piombi al vagone sul quale salirono Bogardo e Ariodante, e trovandosi poi a breve distanza dal luogo della deflagrazione venne investito violentemente dall’onda d’urto di quest’ultima. Scagliato contro una zona depressa del terreno, riportò una profonda lesione alla coscia destra ma ebbe la forza necessaria per raggiungere la casa colonica dove si trovava sfollato. I fratelli Buricchi e il Naldi finirono letteralmente disintegrati dall’esplosione, Mario Banci, Ruffo Del Guerra, Lido Sardi e Bruno Spinelli riportarono delle ferite che solo per l’ultimo si rivelarono mortali a distanza di due giorni, tuttavia per diverso tempo Enzo Faraoni non riuscì a venire a conoscenza di quale fosse la sorte toccata ai suoi compagni.
Mentre percorreva i due chilometri che lo separavano dall’abitazione presso la quale era rifugiato, tenendosi la gamba che nel frattempo si stava gonfiando a dismisura, con i capelli bruciati e gli abiti lacerati, non sapeva se e quanti altri del gruppo oltre a lui si fossero salvati, ma considerata l’enormità dello scoppio temeva di essere l’unico ad essere uscito vivo dall’azione. Dopo essersi rimesso in piedi aveva chiamato a gran voce gli altri uomini coinvolti nell’operazione, ma non gli era giunta alcuna risposta e così si era affrettato verso casa. Una volta arrivato a destinazione, ai genitori e al contadino che li ospitava spiegò che al momento dell’esplosione si trovava al bar del paese in compagnia degli amici e che nonostante la distanza era stato investito dalla deflagrazione, dopodiché si infilò nel letto in preda all’angoscia.
Durante la notte si presentarono diverse persone: il primo fu il padre di Ariodante Naldi, che chiedeva notizie del figlio, e a cui Faraoni rispose in maniera evasiva, altri riferirono che erano stati visti due uomini che dal bosco si muovevano in direzione di Artimino (Banci e Sardi, ndr), e grazie a queste voci Enzo capì che oltre a lui si era salvato qualcun altro. Non sappiamo se il padre fosse al corrente dell’attività del figlio, se avesse creduto alla versione dei fatti fornita da quest’ultimo o se invece avesse intuito cos’era successo realmente, tuttavia temendo che le condizioni in cui era ridotto il giovane avrebbero attirato molti curiosi decise di trasferirlo in una colonica poco distante. A preoccuparlo erano sia una possibile rappresaglia da parte dei tedeschi – che però non venne messa in atto – sia il malumore della popolazione locale, che si era ritrovata con le abitazioni danneggiate dall’esplosione dei vagoni.
Nei giorni immediatamente successivi Faraoni fu aggredito da una febbre fortissima che rese molto confusi i suoi ricordi, tant’è vero che non riusciva a rammentare chi e quando esattamente fosse andato a Firenze a chiedere per conto suo l’aiuto di Ottone Rosai (probabilmente il fratello o forse la cognata oppure entrambi in compagnia l’uno dell’altra), ad ogni modo quel che è certo è che il pittore accolse sotto la sua protezione l’assistente, nello studio di via San Leonardo prima e nella casa di via de’ Benci poi. Il modo in cui Enzo approdò nel capoluogo toscano fu piuttosto singolare, anche se le cose si svolsero un po’ diversamente da come si è raccontato per anni. La versione che è sempre circolata è che il giovane fosse stato trasportato nella città del giglio dentro un carro funebre, per la precisione all’interno di una bara nella quale si era rifugiato per trovare un riparo sicuro, invece indossando un cappello per nascondere i capelli bruciati egli prese posto sul sedile anteriore, in mezzo a Corrado Del Conte e Alfredo Corsinovi, che organizzarono lo spostamento.
Contrariamente a quanto si crede, l’idea non fu di Rosai ma di Del Conte, un corniciaio poi diventato gallerista che aveva acquistato ed esposto diverse opere di Faraoni, e che conosceva la strada per Poggilarca perché in precedenza era andato a trovarlo; Del Conte era amico di Corsinovi, che lavorava all’OFISA di Firenze e che poco più di due mesi prima aveva perso il figlio Franco, partigiano, per mano dei militi della GNR ed era pertanto desideroso di fare qualcosa per contrastare le forze nazifasciste. Rischiando di attirare attenzioni indesiderate (un mezzo del genere in campagna era quanto meno inusuale, inoltre nella zona si sapeva che non c’erano stati morti), il grosso carro funebre si inerpicò verso Poggilarca e poi tornò in città, lasciando l’artista in via San Leonardo. Enzo però non volle rimanere a lungo nello studio di Rosai ed insistette per essere accolto nella sua abitazione, e alla fine dopo non poche titubanze il maestro lo accontentò e lo fece portare in via de’ Benci, dove il discepolo scoprì con sua grande sorpresa che lì Ottone Rosai aveva nascosto un gruppo di sovversivi tra i quali figuravano Bruno Fanciullacci, noto esponente del GAP fiorentino (passato alla storia per aver assassinato il filosofo Giovanni Gentile, ndr), e da poco scampato alla sorveglianza della GNR, e un ufficiale tedesco che aveva disertato.
Il 14 luglio Fanciullacci, che non sopportava di rimanere recluso, venne arrestato in piazza Santa Croce e allora Rosai, temendo che il giovane potesse cedere alle torture e rivelare il nascondiglio, trovò un’altra sistemazione per i suoi ospiti, che furono trasferiti in via Laura a casa del giornalista Paolo Cavallina, dove rimasero fino ai giorni della liberazione di Firenze, che ebbe inizio l’11 agosto, esattamente due mesi dopo l’attentato di Poggio alla Malva. Fanciullacci morì il 17 luglio a seguito della rovinosa caduta da uno dei piani alti di Villa Triste, da cui tentò invano di fuggire. “Sarà stato intorno a mezzogiorno – ricordava a proposito della liberazione Faraoni –, ero davanti alla chiesa di Santa Maria Maggiore, quella che ha una Madonna medievale molto importante, e vedo arrivare questa camionetta dalla stazione, e c’era davanti un soldato alto, biondastro, che sarà stato un canadese o un australiano e veniva a piedi, faceva da battistrada e tutti facevano largo a questo giovane che conquistava la città”.
Per parecchio tempo Enzo non ebbe notizie dei familiari e non conobbe quale fu la sorte dei suoi compagni, a proposito di alcuni dei quali apprese alcuni particolari molti anni più tardi, parlando proprio con Maria Pagnini. “So che di Bogardo, Alighiero e Ario non trovarono nulla – raccontava – , erano stati disintegrati perché erano rimasti lungo la scarpata della ferrovia. Ho incontrato Lido Sarti (sic) qualche anno fa, eravamo stati invitati a una cerimonia a Figline di Prato, lui arrivò con il suo figliolo, si parlò un po’. Ho incontrato anche Ruffo, ma non abbiamo avuto voglia di raccontarci nulla di allora, ci siamo detti cosa si stava facendo, lui faceva il vigile, era contento”. “Quell’altro di Genova (Mario Banci, ndr), da allora invece non l’ho più visto” proseguiva. E poi ancora ricordi: “Quello che morì era il più anziano di tutti e non lo conoscevo, abitava alla Serra con Bogardo, è Bruno Spinelli che morì nella Cavaccia per lo spostamento d’aria, morì perché trovò la pietra della cava”. “Dopo l’esplosione Ruffo Del Guerra prima è arrivato a casa completamente nudo e poi è stato portato a Careggi e c’è rimasto due mesi. E’ arrivato insieme allo Spinelli che invece è morto due giorni dopo”. “Non sapevo che Spinelli fosse morto due giorni dopo, credevo fosse morto subito. Spero che Ruffo ci sia stato due mesi in ospedale perché era un modo per restare nascosto, sennò era ridotto parecchio male”.
Da quel momento Faraoni decise di tagliare i ponti con Poggio alla Malva e di stabilirsi a Firenze. Dopo le polemiche seguite all’attentato dell’11 giugno, motivate perlopiù dal malcontento della popolazione che aveva subito danni in alcuni casi anche pesanti alle proprie abitazioni ed aveva temuto la vendetta dei tedeschi, l’artista si rifiutò di tornare nel territorio carmignanese e mise radici nel capoluogo toscano, dove dopo un periodo di grosse ristrettezze economiche iniziò a lavorare nell’ambito della didattica, annoverando svariate esperienze come insegnante precario prima e di ruolo poi in istituti sia privati che pubblici, senza mai trascurare l’esercizio dell’attività pittorica. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono determinanti per la sua affermazione in campo artistico, in quel periodo infatti partecipò alla Biennale di Venezia e si aggiudicò il Fiorino d’oro, dopodiché passò ad insegnare all’Accademia di Belle Arti di Firenze.
Nel 1951 intanto aveva conosciuto Dianora Marandino, una creativa che dipingeva sui tessuti dando vita ad abiti stupendi, con la quale condivideva molte affinità ed esperienze e che sposò nel 1953. Dianora negli anni Quaranta era stata attiva nella Resistenza fiorentina ed aveva cercato di entrare in contatto con Bogardo Buricchi, e ancora oggi viene ricordata come la donna che riuscì a far aprire Palazzo Pitti agli sfollati fiorentini. Insieme i due trascorsero in armonia cinquant’anni della loro vita, fino alla scomparsa di Dianora, avvenuta nel 2003. All’inizio degli anni Settanta si erano trasferiti all’Impruneta in una casa immersa nel verde, dove il pittore si è spento alla fine del 2017. Negli ultimi tempi era rimasto cieco per un glaucoma congenito e solo in quel periodo era tornato sulla sua decisione di non parlare dei fatti dell’11 giugno, sui quali aveva mantenuto il riserbo per oltre sessant’anni. Le critiche di quanti avevano condannato quel gesto da una parte e di quanti avevano poi cercato di strumentalizzarlo in chiave politica dall’altra avevano spinto Faraoni a chiudersi in un ostinato silenzio, a prendere le distanze dal popolo carmignanese dal quale non si era sentito compreso e ad abbandonare l’impegno civile.
Sullo scadere del primo decennio del XXI secolo, sentendosi probabilmente sempre più vicino alla morte, aveva iniziato ad aprirsi con alcune persone (vedi “Enzo Faraoni ricorda il sabotaggio al treno tedesco” di Walter Fortini) tra le quali figura appunto Maria Pagnini. “Enzo si era trincerato nel mutismo per molti decenni – ha spiegato la scrittrice –, inoltre aveva un carattere piuttosto indeciso che lo portava a rivedere spesso le sue scelte, perciò ho temuto fino all’ultimo che al termine delle nostre conversazioni non mi avrebbe concesso l’autorizzazione per dare alle stampe il libro, invece alla fine è andato tutto per il verso giusto e io sono stata la prima a restare stupita di questa conclusione”. “La pace della sera” ha così visto la sua pubblicazione ed oggi è disponibile per il pubblico come il testamento spirituale di Enzo Faraoni ed una esauriente e puntuale testimonianza sull’attentato dell’11 giugno 1944. (Barbara Prosperi)