Mentre si divideva tra studi di architettura (tra le altre cose si interessò della progettazione del tiburio del duomo di Milano e fornì delle consulenze per la certosa di Pavia), di ingegneria civile e militare, meccanica, fisica, idraulica, invenzioni di vario tipo, apparati per feste di corte e commissioni pittoriche, Leonardo nel suo soggiorno a Milano si concentrò sull’ideazione del monumento equestre a Francesco Sforza, per il quale coltivava da lungo tempo l’ambizione di realizzare il più grande esemplare che si fosse mai visto, un gruppo scultoreo da gettare in bronzo, alto più di sette metri e con il cavallo impennato, il che implicava un’audace sfida alle leggi di gravità, dal momento che l’animale si doveva reggere unicamente sulle zampe posteriori, e infatti da ultimo ripiegò su un più equilibrato cavallo al passo. Il pittore spese mesi interi nell’osservazione dal vero dei cavalli, di cui studiò i movimenti, le proporzioni e l’anatomia, come testimonia una lunga serie di bellissimi disegni, cercando inoltre il metodo di fusione più adatto allo scopo. Alla fine approntò un gigantesco modello in creta già predisposto per il getto in bronzo, ma quando si avvicinò il momento della fusione alla notizia della calata di Carlo VIII in Italia l’ingente quantitativo di metallo destinato al monumento venne requisito per fini militari. Il modello, che rimase esposto per alcuni anni nella Corte Vecchia, dove oggi sorge Palazzo Reale e dove Leonardo, che nel frattempo era diventato ufficialmente uno degli artisti di corte stipendiati da Ludovico il Moro, aveva impiantato lo studio e l’abitazione, venne poi ridotto in frantumi nel 1499 dai colpi di balestra delle truppe francesi.
Era il 1494, e l’amarezza del pittore venne parzialmente addolcita dalla proposta di un nuovo incarico che gli arrivò dai frati domenicani di Santa Maria delle Grazie, luogo destinato alla celebrazione degli casata sforzesca e per questo particolarmente caro al Moro, che con ogni probabilità fu responsabile della commissione; si trattava di affrescare un’”Ultima Cena” nel refettorio del convento, e Leonardo, che tra l’altro versava in un momento di difficoltà economica, accettò di slancio l’offerta, alla cui realizzazione si applicò assiduamente fin dall’inizio. Per la sua versione del soggetto l’artista attinse alla tradizione figurativa fiorentina, ma ancora una volta rinnovò profondamente il tema rivisitandolo in maniera originale: nel suo dipinto per la prima volta Giuda non è separato da Gesù e dagli altri apostoli, ma è seduto in mezzo a loro, e mentre il gruppo dei dodici, riuniti a tre a tre, è sconvolto dalle parole del Cristo – che ha appena rivelato: “Uno di voi mi tradirà” – sulle loro emozioni tumultuose si staglia l’imperturbabilità del Redentore, centro prospettico e semantico della scena, che sembra avere accettato serenamente la propria sorte.
Leonardo, che era abituato a tornare a lungo sulle proprie opere, meditando sul lavoro già compiuto e ritoccandone i particolari anche a distanza di parecchio tempo, per dipingere il “Cenacolo” non adoperò la tecnica dell’affresco, che come è noto richiede sicurezza e rapidità d’esecuzione e non consente ripensamenti di alcuna sorta, ma sperimentò una tecnica a tempera ed olio applicata su due strati di intonaco, che gli consentiva di lavorare sull’opera in maniera dilazionata. A questo proposito è illuminante la testimonianza del novelliere Matteo Bandello, nipote del priore del convento, dove studiò da ragazzo, che sulla base della sua esperienza diretta racconta di averlo spesso visto “la mattina a buon’ora a montar su’l ponte, perché il Cenacolo è alquanto da terra alto; soleva dal nascente Sole sino all’imbrunita sera non levarsi mai il pennello di mano, ma scordatosi il mangiare et il bere, di continovo dipingere. Se ne sarebbe poi stato dui, tre e quattro dì, che non v’averebbe messo mano, e tuttavia dimorava talhora una o due ore al giorno e solamente contemplava, considerava et essaminando tra sé, le sue figure giudicava. L’ho anche veduto (secondo che il capriccio o ghiribizzo lo toccava) partirsi da mezzogiorno, quando il Sole è in Leone, da Corte Vecchia ove quel stupendo Cavallo di terra componeva, e venirsene dritto a le Gratie: et asceso sul ponte pigliar il pennello, et una o due pennellate dar ad una di quelle figure e di subito partirse et andare altrove”.
Anche se si adattava al suo modus operandi, la tecnica usata da Leonardo dimostrò tuttavia la sua fragilità già all’inizio del Cinquecento – il dipinto risultava terminato nel 1498 –, quando si registrarono le prime perdite di colore; da allora si susseguirono restauri e ridipinture, che in diversi casi peggiorarono lo stato di salute dell’opera e ne alterarono sensibilmente la pellicola cromatica e l’immagine complessiva, finché il bombardamento che si abbatté sul complesso architettonico di Santa Maria delle Grazie nel 1943 assestò il colpo di grazia all’“Ultima Cena”: paradossalmente proprio i sacchi di sabbia messi a protezione del dipinto lo rovinarono irreparabilmente, perché la deflagrazione ne scagliò con violenza i granelli sulla superficie pittorica, che in tal modo rimase lesa dall’impatto in maniera irrecuperabile. Solo le repliche antiche eseguite da artisti sia italiani che stranieri ci consentono di farci un’idea dell’aspetto originario dell’opera, che nemmeno il lungo ed accuratissimo restauro concluso da Pinin Brambilla nel 1999 ha potuto riportare in condizioni di soddisfacente leggibilità.
Tra il 1497 e il 1499 Leonardo attese alla decorazione della cosiddetta Sala delle Asse, un vasto ambiente situato al piano terra del torrione nord-orientale del Castello Sforzesco, il cui nome gli deriva dalle assi di legno che un tempo ne rivestivano le pareti per rendere il locale meno freddo e più confortevole. La sala serviva presumibilmente come locale di rappresentanza, destinato allo svolgimento di cerimonie, udienze e riunioni, e secondo le intenzioni di Ludovico il Moro doveva celebrare la casata sforzesca, che si era da poco unita con quella estense (nel 1491 il duca di Milano aveva infatti sposato la giovanissima Beatrice d’Este e si era dunque imparentato con la dinastia di Ferrara). L’artista dipinse sulla superficie muraria una lussureggiante selva di alberi le cui fronde, salendo dalle pareti laterali verso il soffitto, si fondono in un fitto intrico di vegetazione sulla volta della sala, al cui centro campeggiano gli stemmi delle famiglie Sforza ed Este. Il finto pergolato che copre interamente il soffitto, conseguendo uno sbalorditivo effetto illusionistico, si origina da sedici piante di gelso, che rendono un duplice omaggio al duca: il gelso viene infatti indicato con il nome di moro (dal latino “morus”), una chiara allusione al soprannome di Ludovico, inoltre fa riferimento all’industria della seta che rendeva fiorente l’economia della città (il gelso è alla base dell’alimentazione del baco da seta), un’attività che era stata favorita già nel XV secolo dai Visconti e che in seguito era stata incentivata anche dagli Sforza. Anche in questo caso Leonardo non si assoggettò alla pittura ad affresco, ma fece uso di una tecnica che gli permise di applicare sull’intonaco la tempera stesa a secco, che dopo essere stata scialbata fu riportata alla luce alla fine dell’Ottocento grazie alle ricerche dell’architetto Luca Beltrami e dello storico Paul Müller.
Nel 1499 l’esercito di Luigi XII conquistò Milano e catturò Ludovico il Moro; il genio, che si vide costretto a rinunciare al suo status di artista di corte, trasferì 600 fiorini all’ospedale di Santa Maria Novella a Firenze e abbandonò il ducato sforzesco, scrivendo amaramente: “Il duca perse lo stato e la roba e la libertà. Nessuna opera si finì per lui”. Alle soglie dei cinquant’anni Leonardo fu così costretto a cercare un altro mecenate che potesse assicurargli il lavoro e la sicurezza economica necessari per proseguire i suoi studi e i suoi esperimenti. (segue – Barbara Prosperi)
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