La quattro giorni carmignanese di “Calici di stelle”, che si conclude questa sera nell’antica Rocca di Carmignano, ha voluto rendere omaggio a Leonardo da Vinci nel cinquecentesimo anniversario della sua morte: il suo autoritratto è stato proiettato sui Campano e il suo nome è stato impresso sui calici usati per le degustazioni. Il riferimento, già di per sé pertinente, risulta ancora più azzeccato se consideriamo che tra i tanti interessi che hanno animato la vita del genio non sono mancati quelli per la viticoltura e l’enologia, di cui si riscontrano riferimenti chiari e precisi nei suoi numerosi scritti.
Occorre subito precisare che l’artista toscano era profondamente legato alla terra e alle sue coltivazioni, avendo risieduto in due borghi a forte vocazione agricola come Vinci e Bacchereto, dove la famiglia paterna portava avanti una antica tradizione nella produzione vinicola. Il padre Piero, notaio di spicco nella città di Firenze, possedeva infatti alcuni poderi sulle colline sia di Vinci che di Bacchereto, nei pressi di Carmignano, da cui proveniva la nonna paterna, monna Lucia, dai quali ricavava 84 barili annui, come testimoniano alcuni documenti conservati presso il catasto fiorentino e datati 1498.
Affascinato com’era da ogni manifestazione del mondo naturale, Leonardo non era soltanto un conoscitore ma anche un appassionato dell’universo che gira attorno alla vite, all’uva e al vino, che egli definiva “divino licore”, conferendogli non soltanto importanza ma assegnandogli anche un significato quasi spirituale, come si evince da un passo in cui si legge: “il beuto vino elevò l’anima sua verso il celabro” (il cervello, l’intelletto). La familiarità che aveva con il nettare dionisiaco gli derivava da un consumo quotidiano e moderato, di cui si trova traccia nei suoi taccuini, dove il vino è regolarmente citato nella lista della spesa accanto ad altri alimenti, insieme a considerazioni e raccomandazioni riguardo alla sua preparazione e alla sua assunzione: “el vino sia temperato (annacquato), poco e spesso, non fuor di pasto né a stomaco voto”; “il vino è bono, ma (perciò) l’acqua avanza in tavola”; “il vino consumato dall’imbriacoso, esso vino col bevitore si vendica”.
All’inizio della sua carriera, quando non era ancora un pittore famoso, mentre attendeva all’esecuzione dell’“Adorazione dei Magi” tra le altre cose Leonardo accettò come forma di pagamento “uno barile di vino vermiglio” (rosso) da parte dei frati del convento fiorentino di San Donato a Scopeto, nei pressi di Porta Romana. E verso la fine del suo primo soggiorno milanese Ludovico il Moro gli donò un terreno di circa un ettaro vicino alla sua abitazione, attualmente nota come la casa degli Atellani, e al convento di Santa Maria delle Grazie, per il cui refettorio aveva realizzato l’“Ultima Cena”. Quella era considerata allora quasi una zona di aperta campagna, oggi però appartiene a tutti gli effetti al centro storico del capoluogo lombardo, considerato che sia la casa degli Atellani che il complesso architettonico di Santa Maria delle Grazie si affacciano sui lati opposti di Corso Magenta.
A quel terreno coltivato a vigna ricevuto nel 1498 Leonardo si era subito affezionato, probabimente perché gli ricordava le sue origini in terra di Toscana, ma non sappiamo se riuscì a godere dei suoi frutti, dal momento che la calata in Milano delle truppe di Carlo VIII nel 1499 costrinse alla fuga lo Sforza e i suoi collaboratori. L’artista rientrò a Firenze al principio del 1500, e tre anni più tardi si consolò acquistando diversi appezzamenti di terreno a Fiesole, ma in capo ad altri tre anni trovò il modo di rientrare in possesso della vigna milanese, allorché Carlo d’Amboise, luogotenente di Luigi XII, lo invitò a tornare nella città meneghina; in quell’occasione Leonardo pose come condizione la restituzione del terreno, a cui evidentemente teneva in maniera particolare, e ne tenne poi conto nelle sue disposizioni testamentarie, dove stabilì che venisse equamente ripartito tra Battista de Villanis, il servitore che lo aveva accudito durante il soggiorno francese, e il Salaì, il discepolo che trascorse con il pittore circa venticinque anni della sua vita.
Oggi sappiamo anche da quali vitigni era costituito il vigneto: esso fu oggetto di cure amorevoli da parte degli eredi dell’artista fino al secondo conflitto mondiale, poi nel 1943 subì un violento incendio causato da un bombardamento inglese; per lungo tempo si è pensato che fosse andato completamente distrutto nella devastazione causata dalle fiamme, invece degli scavi condotti successivamente nel terreno in questione hanno permesso di rinvenire alcuni frammenti di radici ancora vitali, che sottoposti ad attente analisi di laboratorio hanno emesso l’attesa sentenza: si trattava di Malvasia bianca di candia aromatica, una qualità presente sui colli piacentini di Castello di Luzzano, dove viene declinata nelle tre varianti frizzante secco, dolce frizzante e Malvasia fermo, e che di recente è stata reimpiantata nel terreno di Milano, consentendo di ricreare ad oltre cinque secoli di distanza la vigna e il vino di Leonardo.
Nel 1515, mentre si trovava a Roma, il pittore ricevette dal fattore del podere di Fiesole un campione della nuova svinatura ancora fresca di mosto; assaggiatolo e trovatolo deludente, scrisse al suo amministratore una lettera in cui gli fornì delle preziose indicazioni per migliorare la coltivazione delle viti e la produzione e la conservazione del vino, anticipando come spesso gli succedeva degli accorgimenti che sarebbero stati adottati su larga scala solamente in futuro. In questo documento, che viene considerato alla stregua di un trattato di tecnica enologica ante litteram, Leonardo offrì la prova della competenza che aveva e dell’approccio scientifico che usava in materia di vitivinicoltura, e propose delle soluzioni valide ed attuali ancora oggi, nonostante siano trascorsi più di cinquecento anni.
Tra le varie prescrizioni contenute nella lettera il genio raccomandò di concimare le viti con sostanze basiche, di effettuare la vinificazione in botti chiuse per non disperdere l’aroma del prodotto, e di fare uso di travasi per evitare contaminazioni che potessero risultare dannose. “Conciosiacosaché si voi et altri faciste senno di tali raggioni – concludeva l’artista –, noi berremo vino excellente”. Questi accorgimenti sono stati recentemente assunti come linee guida dallo staff tecnico, agronomico ed enologico della Leonardo da Vinci Spa per la definizione di un metodo che, grazie all’utilizzo della tecnologia più avanzata, permetta di realizzare l’obiettivo del pittore: ottenere prima uve e poi vini di ottima qualità. Con il supporto di una squadra di enologi e di studiosi, tra i quali spiccano l’esperto sensoriale Luca Maroni e lo storico dell’arte Alessandro Vezzosi, è infatti nata una linea di etichette che intende rendere omaggio al genio e alle sue intuizioni in campo vitivinicolo. (Barbara Prosperi)