Nel gennaio del 1504 Leonardo venne convocato insieme ad altri artisti (tra i tanti Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Lorenzo di Credi, Davide Ghirlandaio, Andrea della Robbia, Andrea Sansovino, Giuliano e Antonio da Sangallo) per decidere la collocazione del David di Michelangelo, il colosso di marmo commissionato al Buonarroti dall’Arte della Lana e dall’Opera del Duomo, destinato inizialmente ad uno dei contrafforti absidali della cattedrale di Santa Maria del Fiore, ma poiché la figura del giovane eroe biblico che abbattendo il gigante Golia libera Israele dalla minaccia del nemico sembrava incarnare alla perfezione le virtù civili della neonata Repubblica fiorentina, desiderosa di indipendenza e di libertà, venne stabilito che dovesse essere trasferito in piazza della Signoria. Mentre Michelangelo definiva gli ultimi dettagli della scultura, alcuni dei più rappresentativi artisti della città erano dunque chiamati ad esprimere la loro opinione per individuare il luogo più adatto per il David. Leonardo, in accordo con Giuliano da Sangallo, propose di riparare la statua sotto la Loggia dell’Orcagna (l’attuale Loggia dei Lanzi) per proteggerla dalle intemperie, considerato che il marmo adoperato dal Buonarroti era rimasto inutilizzato ed abbandonato all’incuria per molto tempo e non versava pertanto in buone condizioni, altri proposero di trasportarlo nel cortile di Palazzo Vecchio, altri ancora – fra cui il suo stesso autore – di posizionarlo accanto all’ingresso principale dell’edificio. Alla fine prevalse quest’ultima soluzione, e benché le previsioni del Vinci e del Sangallo si rivelassero fondate (oggi le spalle del David, trasferito alla Galleria dell’Accademia, appaiono fortemente erose dagli agenti atmosferici, oltre che da un pernicioso intervento di restauro eseguito dallo scultore Aristodemo Costoli nell’Ottocento) la loro proposta venne interpretata dai più come un tentativo, da parte dei più anziani maestri – ed in particolare di Leonardo – di voler umiliare l’astro nascente di Michelangelo assegnando alla sua creazione una posizione defilata.
In effetti i rapporti tra Leonardo e Michelangelo non dovevano essere sereni e distesi, come peraltro emerge dalle testimonianze dell’epoca: la differenza di età (il Buonarroti è nato nel 1475), i caratteri opposti (riflessivo l’uno e impulsivo l’altro) e la rivalità in campo professionale li portavano a scontrarsi non soltanto a livello ideologico ma anche concreto, come quando – secondo il racconto del cosiddetto Anonimo Gaddiano – i due si incontrarono in piazza Santa Trinita e Michelangelo, impegnato in una discussione sulla “Divina Commedia”, chiese a Leonardo di spiegare un verso di Dante; di fronte alla reticenza del collega, il Buonarroti reagì con stizza ricordandogli in maniera sprezzante che in quasi vent’anni trascorsi a Milano non era stato capace di condurre a termine il monumento equestre a Francesco Sforza. A peggiorare la situazione dovette certo contribuire la competizione messa in atto da Pier Soderini con la duplice commissione per la Sala del Gran Consiglio in Palazzo Vecchio, e ad inasprire ulteriormente le cose arrivò poi la proposta del pittore di posizionare il David in una collocazione che sappiamo venne accolta in maniera sfavorevole dal Buonarroti. La soluzione avanzata da Leonardo comunque non venne approvata e l’artista, archiviata anche questa esperienza, poté tornare ai suoi interessi, che spaziavano dalla pittura alla fisica, dalla meccanica all’anatomia.
In questo periodo nacque il suo dipinto più famoso, divenuto una vera e propria icona conosciuta a livello planetario, riprodotto all’infinito su qualunque tipo di supporto, usato ed abusato con le più svariate finalità, ovverosia la “Monna Lisa” o “Gioconda” del Louvre, l’opera più ambita dai visitatori del museo parigino, che quotidianamente si accalcano davanti al piccolo quadro (misura appena 77 centimetri di altezza per 53 di larghezza) per ammirarlo dal vero. Secondo la tradizione, e sulla scorta della testimonianza di un passo delle “Vite” del Vasari, la donna effigiata è stata identificata in Lisa Gherardini, moglie di Francesco del Giocondo, anche se non sono mancate nel tempo altre proposte, avanzate da chi tra le tante ha pensato a Pacifica Brandani, amante di Giuliano de’ Medici, alla madre di Leonardo, Caterina, o addirittura ad un autoritratto in versione femminile dello stesso artista. Il taglio inusuale del ritratto, di tre quarti, la monumentalità della figura, con le mani in primo piano, l’espressione indecifrabile della donna, il sorriso enigmatico, il paesaggio roccioso che in lontananza degrada nell’azzurro ed è attraversato da un corso d’acqua (alcuni ritengono che si tratti di un paesaggio immaginario, altri ipotizzano che possa essere ripreso dalla realtà e alcuni in particolare vi ravvisano la valle dell’Arno in territorio aretino, riconoscendo nel ponte ad arcate che si vede nella parte destra della tavola quello di Buriano), e in definitiva tutti gli elementi organizzati in maniera equilibrata e sapiente nella composizione fanno di quest’opera uno dei vertici dell’arte pittorica di tutti i tempi. Qualunque sia l’identità della persona raffigurata, è certo che Leonardo non si separò mai dal dipinto, lo portò con sé in Francia, e quando morì questo entrò a far parte della collezione di Francesco I, motivo che ancora oggi ne legittima la presenza sul suolo transalpino.
Durante gli anni fiorentini l’artista appuntò la sua attenzione sullo studio del volo: osservò attentamente ed analizzò il modo in cui gli uccelli si librano nell’aria, dedicando a questo argomento un intero taccuino (il “Codice sul volo degli uccelli” della Biblioteca Reale di Torino, compilato nel 1505, anche se nelle sue intenzioni gli appunti che lo compongono, opportunamente approfonditi ed ampliati, dovevano confluire in un trattato ben più articolato), e sognò di riuscire a sconfiggere la forza di gravità e di trovare il sistema di dare all’essere umano la possibilità di volare. Pensando al volo degli uccelli, ma traendo ispirazione dalle ali dei pipistrelli, Leonardo progettò una macchina che battezzò il Grande Nibbio (in una delle sue carte scrive: “Piglierà il primo volo il grande uccello sopra del dosso del suo magno Cecero, empiendo l’universo di stupore, empiendo di sua fama tutte le scritture, e gloria eterna al nido dove nacque”), accarezzando l’idea di spiccare il volo, e secondo la leggenda una volta messala in opera la fece sperimentare al suo fedele assistente Zoroastro da Peretola, che in realtà si chiamava Tommaso Masini e lo seguiva da più di vent’anni; questi stando al racconto che si è tramandato nei secoli si lanciò dunque da una collina di Fiesole (il monte Ceceri si trova appunto nei pressi della cittadina toscana), rimase brevemente sospeso nell’aria, ma ad un certo punto le cose non funzionarono come sperato e l’uomo precipitò al suolo fratturandosi una gamba.
Parallelamente l’artista proseguì anche gli studi di anatomia, che conduceva nottetempo presso l’ospedale di Santa Maria Nuova, realizzando i suoi disegni più belli, la cui collezione è conservata quasi integralmente alla Biblioteca Reale di Windsor. Grazie alla sua insaziabile curiosità, che lo portava a voler scoprire, indagare e conoscere tutto ciò che passava attraverso i suoi sensi, Leonardo decise di comprendere a fondo come funziona la meravigliosa macchina umana, perciò partì nell’ordine dall’esame dei muscoli, dei tendini e delle ossa per arrivare a quello degli organi interni e dei sistemi nervoso, linfatico e sanguigno. Incurante dei rischi corsi (all’epoca era severamente proibito praticare la dissezione anatomica al di fuori delle sedi universitarie, dove normalmente era concessa una sola dimostrazione nell’arco dell’intero anno accademico), egli passò intere notti a sezionare, scrutare e disegnare ciò che si cela sotto l’epidermide di ogni uomo, inventando la cosiddetta immagine “esplosa” e gettando di fatto le basi della moderna illustrazione anatomica. In base alle sue stesse dichiarazioni sappiamo che nel corso degli anni l’artista dissezionò più di trenta cadaveri, tra cui quello di una donna incinta che portava in grembo un bambino già ben formato, puntualmente raffigurato nei suoi disegni, e che aveva in animo di pubblicare un vasto trattato di anatomia. Tra le tante considerazioni espresse in materia, se ne trovano alcune di particolare interesse.
In una si può rintracciare un chiaro riferimento al metodo di lavoro seguito da Leonardo: “E tu, che di’ esser meglio il vedere fare la notomia, che vedere tali disegni – scrive infatti –, diresti bene, se fusse possibile veder tutte queste cose, che in tal disegni si dimostrano, in una sola figura; nella quale, con tutto il tuo ingegnio, non vedrai e non arai la notizia se non d’alquante poche vene; delle quali io, per averne vera e piena notizia, ho disfatti più di dieci corpi umani, destruggendo ogni altri membri, consumando con minutissime particule tutta la carne che d’intorno a esse vene si trovava, senza insanguinarle, se non d’insensibile sanguinamento delle vene capillare. E un sol corpo non bastava a tanto tempo, che bisogna procedere di mano in mano in tanti corpi, che si finissi la intera cognizione; la qual ripricai due volte per vedere le differenzie. E se tu arai l’amore a tal cosa, tu sarai forse impedito dallo stomaco; e se questo non ti impedisce, tu sarai forse impedito dalla paura coll’abitare nelli tempi notturni in compagnia di tali morti squartati e scorticati e spaventevoli a vederli; e se questo non t’impedisce, forse ti mancherà il disegnio bono, il quale s’appartiene a tale figurazione. E se tu arai il disegno, e’ non sarà accompagnato alla prospettiva; e se sarà accompagnato, e’ ti mancherà l’ordine delle dimostrazioni geometriche e l’ordine delle calculazion delle forze e valimento de’ muscoli; e forse ti mancherà la pazienza, se tu non sarai diligente”.
L’altra ci rivela l’ambiguità di Leonardo, che prima fece visita ad un anziano degente del’ospedale, e dopo il suo decesso lo dissezionò spinto dal desiderio di studiare i segreti del suo organismo: “…e questo vecchio – annota –, di poche ore innanzi la sua morte, mi disse lui passare cento anni, e che non si sentiva alcun mancamento della persona, altro che debolezza; e così, standosi a sedere sopra uno letto nello Spedale di Santa Maria Nova di Firenze sanza altro movimento o segno alcuno d’accidente, passò di questa vita. E io ne feci notomia, per vedere la causa di sì dolce morte”. E’ sbalorditivo come in queste poche righe si assista al passaggio repentino tra l’atteggiamento pietoso dell’uomo e la fredda lucidità dello scienziato, in un’apparente contraddizione che si riscontra spesso in Leonardo, che odiava la guerra ma progettava macchine e ordigni di distruzione, che era taciturno, introverso e riservato ma era anche capace di trasformarsi in un brillante cortigiano, a seconda delle circostanze e a motivo di una personalità multiforme, sfaccettata ed estremamente complessa.
Era intanto giunto il 1506. In questo periodo Leonardo iniziò a ricevere l’invito di recarsi nuovamente nel capoluogo lombardo da parte del re di Francia Luigi XII, prima attraverso le richieste del governatore di Milano Carlo d’Amboise, poi attraverso quelle dello stesso sovrano, e alla fine decise di fare ritorno nella città che tanto gli aveva dato lanciandolo nel firmamento degli artisti più ambiti del suo tempo. Ufficialmente vi si trasferì in via temporanea per terminare la seconda versione della “Vergine delle rocce”, dopo aver chiesto un regolare permesso alla Signoria fiorentina, ma in realtà cercò di prolungare il proprio soggiorno il più a lungo possibile, anche perché contrariamente a quanto gli veniva richiesto non aveva intenzione di rimettersi al lavoro sulla “Battaglia di Anghiari”. Della famiglia d’origine ormai gli restava soltanto lo zio Francesco, che si era sposato ma non aveva mai avuto figli e doveva nutrire ancora per il primo nipote un affetto speciale. Ser Piero era morto nel 1504, come ci ricorda uno dei taccuini dell’artista: “ A dì 9 di luglio 1504, in mercoledì a ore 7, morì Ser Piero da Vinci, notaio al Palagio del Podestà, mio padre, a ore 7”. Con i fratelli, con i quali era in rapporto soltanto per controversie di tipo legale, non esistevano veri legami affettivi, pertanto ancora una volta l’artista abbandonò Firenze senza lasciarsi alle spalle grossi rimpianti. (Barbara Prosperi)
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