Vasari fu l’artista prediletto di Cosimo I, l’uomo a cui il duca affidò l’ammodernamento e la decorazione di Palazzo Vecchio, la costruzione degli Uffizi, che dovevano appunto ospitare unificandoli gli uffici cittadini, da cui il nome dell’edificio, e a cui in ultima analisi affidò la cura della sua immagine pubblica, secondo una concezione dell’arte che doveva servirgli come strumento di propaganda politica, anche se fu preceduto o affiancato da altri grandi protagonisti del Manierismo fiorentino come Jacopo Pontormo, Agnolo Bronzino, Baccio Bandinelli, Benvenuto Cellini, Bartolomeo Ammannati. La committenza di Cosimo in molti casi modificò in maniera incisiva l’aspetto di Firenze: oltre all’edificazione degli Uffizi e del Corridoio Vasariano, all’ampliamento di Palazzo Pitti e del Giardino di Boboli, cui si è già accennato, è principalmente a lui che si deve l’aspetto attuale di Piazza della Signoria, con la grande Fontana del Nettuno realizzata dall’Ammannati e dai suoi collaboratori e la trasformazione della Loggia dei Lanzi in un grande museo a cielo aperto che oltre al Perseo del Cellini accolse nel tempo una ricca collezione di sculture antiche appartenenti alla collezione medicea.
Inoltre affidò al Pontormo la decorazione del coro di San Lorenzo e al Bronzino i ritratti di famiglia e la decorazione della cappella privata di Eleonora in Palazzo Vecchio, mentre impiegò Cellini come orafo, come scultore e come restauratore, incaricandolo di integrare alcuni preziosi manufatti antichi, come ad esempio il torso romano trasformato nel Ganimede del Bargello o la Chimera etrusca del Museo Archeologico. Quella per l’archeologia fu una sua grande passione, che lo portò ad intraprendere vaste campagne di scavo ad Arezzo, a Chiusi e in altre località della Toscana meridionale, dalle quali emersero molti reperti importanti. Impiantò poi l’arazzeria di corte, chiamando a Firenze esperti maestri provenienti dalle Fiandre. E ancora promosse la fondazione dell’Accademia delle Arti del Disegno, degli Orti botanici di Pisa e Firenze, favorì la trasformazione dell’Accademia degli Umidi nell’Accademia Fiorentina, che doveva occuparsi della diffusione della lingua toscana, e diede impulso alla nascita di una stamperia ducale, affidandone il monopolio al fiammingo Lorenzo Torrentino.
Dal punto di vista militare rafforzò o costruì ex novo una consistente quantità di fortezze dislocate tra Firenze, Pistoia, Fivizzano, San Miniato, Pisa, Volterra, Siena, Arezzo, Sansepolcro, e fondò Portoferraio (in origine Cosmopoli) all’Isola d’Elba e Terra del Sole (in origine Eliopoli) in Romagna, nei pressi di Forlì. Rinunciò ad estendere il suo dominio su Lucca, ma con il suo esercito nel 1555 riuscì a conquistare Siena, che non aveva ancora ceduto all’assedio delle truppe imperiali, ed ottenne da Filippo II, il figlio di Carlo V che nel 1558 gli successe alla guida dell’impero asburgico, il governo della città, che di fatto non venne mai annessa al ducato fiorentino ma rimase un’entità separata. Potenziò la flotta toscana, istituì l’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, di cui fu gran maestro, costruì porti, creò strade, incentivò opere di bonifica, impiantò nuove attività economiche e rilanciò quelle vecchie, incrementò i commerci, rendendo la Toscana uno Stato moderno e al passo con i tempi.
Nel 1569 Cosimo ottenne finalmente anche la concessione del titolo di granduca, un riconoscimento che aveva desiderato a lungo per elevare il proprio rango, affrancarsi dal ruolo di semplice feudatario dell’imperatore acquisendo al contempo una maggiore indipendenza politica, ed entrare così nell’orbita degli Stati più influenti d’Europa. Dopo i ripetuti dinieghi da parte di Carlo V e di Filippo II, l’assenso gli arrivò da papa Pio V, all’anagrafe Antonio Ghislieri, che incoronò Cosimo nel corso di una solenne cerimonia avvenuta in Vaticano nel 1570. Pare che in tal modo il pontefice intendesse premiarlo per gli sforzi profusi nella lotta contro l’eresia protestante e la minaccia turca: si dice infatti che in nome della prima nel 1566 il duca avesse tradito l’amico Pietro Carnesecchi consegnandolo nelle mani dell’Inquisizione romana dopo avergli accordato la sua protezione a corte, consentendo che contro di lui si celebrasse il processo al termine del quale il diplomatico venne condannato a morte, decapitato e messo al rogo nei pressi di Ponte Sant’Angelo; per quanto riguarda la seconda è certo che Cosimo aveva promesso di mettere la sua flotta al servizio della Lega Santa, tant’è vero che nel 1571 le galee toscane parteciparono alla famosa battaglia di Lepanto, distinguendosi tra l’altro per l’efficacia ed il valore militare a dispetto delle modeste dimensioni della flotta.
Sebbene a onor del vero si tramandi anche che il Carnesecchi fosse stato catturato all’insaputa del duca, o che pur non essendosi opposto alla sua consegna Cosimo avesse comunque tentato di aiutarlo nel corso del processo, cercando di opporsi ad una condanna per eresia, questa resta una delle vicende più oscure nella biografia del Medici, che è stato perseguitato fino ai nostri giorni da una fama lugubre che ha finito per coinvolgere anche le vicissitudini familiari. Le voci malevole sul granduca erano anzi già iniziate nel 1557, all’epoca in cui morì Maria, la prima figlia di Cosimo ed Eleonora, promessa sposa di Alfonso II d’Este, deceduta a Livorno probabilmente per febbri malariche. A questa spiegazione ufficiale ne venne però affiancata un’altra mormorata a bassa voce dal popolo, secondo la quale sarebbe stato il padre ad uccidere la ragazza dopo averla sorpresa tra le braccia di un inserviente di corte.
Dicerie di questo tipo si ripeterono anche nel 1562, che fu sicuramente l’anno più difficile della vita di Cosimo, che nel giro di poche settimane perse tre dei suoi affetti più cari. Eleonora accusava già da tempo i sintomi della tubercolosi, come risulta evidente anche dai ritratti ufficiali, dove con il passare degli anni veniva evidenziato sempre più l’aspetto emaciato e sofferente della donna, e anche per tentare di dare sollievo alla sua salute malferma nel novembre di quell’anno il duca si era fatto accompagnare dalla moglie, e oltre a lei da tre dei suoi figli maschi, Giovanni, Garzia e Ferdinando, in un viaggio nella Maremma grossetana, durante il quale mentre Cosimo avrebbe seguito i lavori di bonifica iniziati nella regione Eleonora avrebbe tratto giovamento dal clima mite della costa. Mentre risalivano verso nord i cinque fecero una sosta a Rosignano, e lì Giovanni prima e Garzia poi iniziarono a sentirsi male, e le loro condizioni peggiorarono così rapidamente che Giovanni si spense a Livorno il 20 di novembre, mentre Garzia a Pisa il 12 di dicembre. Il 17 dicembre, dopo soli cinque giorni dal decesso di quest’ultimo spirò anche Eleonora, consumata dalla tubercolosi e dal dispiacere.
Anche in questo caso la diagnosi della morte dei due ragazzi fu di febbri malariche, il che era perfettamente plausibile con le condizioni ambientali delle zone che avevano attraversato, infestate dal temibile Plasmodium falciparum, tuttavia ancora una volta si diffuse una voce malevola secondo la quale durante una battuta di caccia sarebbe scoppiata una lite tra Giovanni e Garzia, venuti a contendersi l’uccisione di una lepre, al culmine della quale Garzia, avviato alla carriera militare nella marina, avrebbe ferito a morte Giovanni, già cardinale della Santa Romana Chiesa; venuto a conoscenza dell’accaduto, il padre sarebbe andato su tutte le furie e in un impeto d’ira avrebbe ucciso Garzia con le sue stesse mani, provocando in tal modo anche il decesso di Eleonora, che non avrebbe retto al dolore. Oggi però siamo in grado di attestare l’inattendibilità di questa leggenda a tinte fosche, poiché le recenti riesumazioni del ramo granducale della stirpe medicea hanno confermato la presenza del parassita che provoca la malaria nei resti di tutti e tre i cadaveri, scagionando Cosimo e Garzia dai sospetti di omicidio nei confronti rispettivamente del figlio e del fratello. In quell’occasione anche Ferdinando, il figlio più piccolo, contrasse la malattia, ma avendola probabilmente presa in forma leggera ne guarì restandone immunizzato per tutta la vita.
Il duca rimase duramente provato dal triplice lutto, in particolare dalla scomparsa dell’amatissima moglie, tanto che nella primavera del 1564 affidò la reggenza dello Stato al primogenito Francesco e prese a passare sempre più tempo nella villa di Castello. L’anno successivo iniziò una relazione con la giovane Eleonora degli Albizi, da cui ebbe nel 1566 una figlia morta ancora in fasce, di cui non si conosce neppure il nome, e nel 1567 un figlio chiamato Giovanni, che sullo scorcio del secolo firmò il progetto della Cappella dei Principi, il grande mausoleo voluto da Cosimo e realizzato poi da Ferdinando per ospitare le spoglie dei Medici. I figli nati da Eleonora di Toledo però, capitanati da Francesco, avversarono l’unione del padre con Eleonora degli Albizi, che alla fine venne costretta a ritirarsi in sordina e a maritarsi con Bartolomeo Panciatichi. Tuttavia Cosimo, che nel frattempo era stato colpito da un ictus, si innamorò di un’altra giovane donna, Camilla Martelli, e nonostante l’atteggiamento ostile dei figli legittimi nel 1570 la sposò celebrando un matrimonio morganatico, tale cioè da escludere la moglie e l’eventuale prole da qualunque diritto di successione. Da Camilla l’uomo aveva già avuto una figlia, Virginia, nata nel 1568, e trascorse gli ultimi anni della sua vita insieme alla sua nuova famiglia, tormentato dalla gotta e soprattutto da ripetuti problemi di natura circolatoria (ischemie o emorragie cerebrali) che gli paralizzarono la parte destra del corpo e gli tolsero l’uso della parola, finché un ultimo attacco lo condusse alla morte il 21 aprile del 1574. Per una singolare quanto significativa coincidenza appena due mesi dopo, il 27 giugno, si spense anche Giorgio Vasari.
Cosimo venne inumato nel complesso laurenziano con la cappa dell’Ordine di Santo Stefano e attualmente la sua tomba si trova nella cripta sottostante la Cappella dei Principi, dove i suoi resti riposano accanto a quelli di Eleonora, di Giovanni e di Garzia. Dopo la sua morte Francesco relegò Camilla nel convento delle Murate, dove la donna finì per perdere il senno, non riuscendo ad accettare la reclusione forzata impostale dal nuovo granduca di Toscana. Anche Virginia uscì di scena sposandosi con Cesare d’Este, duca di Ferrara, e concluse la sua vita dando analogamente alla madre segni di squilibrio mentale. (Barbara Prosperi – leggi qui la prima parte)