Forse non molti sanno che Leonardo da Vinci ebbe in famiglia un erede che ne recepì il talento di artista, anche se la morte prematura e le poche opere realizzate nella sua breve vita non gli permisero di farsi conoscere come indubbiamente avrebbe meritato. La nascita del giovane, tanto dotato quanto sfortunato, avvenne tra il 1529 e il 1530, circa dieci anni dopo la morte del genio, da parte del fratellastro Bartolomeo, uno dei numerosi figli avuti dal prolifico ser Piero, padre di Leonardo e di tanti altri discendenti legittimi e illegittimi. Bartolomeo pregava spesso affinché per mezzo della moglie “nascesse in casa sua un altro Lionardo”, e alla fine fu esaudito con l’arrivo di un bambino a cui venne posto il nome di Pier Francesco, in onore del nonno e del prozio, anche se in un primo momento i genitori avevano pensato di chiamarlo proprio Leonardo. Stando al racconto di Giorgio Vasari, il fanciullo dette prova fin dalla più tenera età di una spiccata inclinazione per il disegno e per l’arte plastica, che iniziò a praticare da piccolo modellando dei “fantoccini di terra”, forse nella stessa fornace di famiglia che aveva visto all’opera anche lo zio, nel borgo di Bacchereto (vedi “Leonardo e Bacchereto. Terra da far boccali” di Barbara Prosperi).
Secondo il racconto del Vasari, Pierino (così fu in breve chiamato da tutti) all’età di dodici anni fece il suo ingresso nella bottega di Baccio Bandinelli, per poi passare in quella di Niccolò dei Pericoli, meglio conosciuto come il Tribolo, due dei più rilevanti scultori della Firenze dell’epoca, apprezzati entrambi dal granduca Cosimo I de’ Medici. Fu soprattutto con il secondo che il ragazzo fece i maggiori progressi, mettendosi in luce come uno degli allievi più dotati e completi, tanto che iniziò presto a collaborare attivamente alle imprese del maestro, come ad esempio la decorazione del giardino della villa medicea di Castello, per la quale realizzò dei bellissimi putti dalle pose disinvolte e vivaci. Nel corso di un fondamentale soggiorno a Roma entrò in contatto con Michelangelo e si applicò allo studio dell’arte classica, inoltre cominciò a dedicarsi al restauro e all’integrazione delle statue antiche. Rientrato in Toscana, prese dimora a Pisa e, grazie alla protezione del notaio Luca Martini, ricevette una serie di commissioni di rilievo legate all’ambito mediceo, nell’esecuzione delle quali esibì una maturità tecnica e stilistica sbalorditive per un artista di appena vent’anni.
Tra le tante opere scolpite in quel periodo e arrivate fino ai nostri giorni si ricordano il Dio fluviale esposto al Louvre di Parigi, Sansone e il filisteo nel cortile di Palazzo Vecchio a Firenze, la Dovizia sul lungarno pisano ed alcuni bassorilievi di finissima fattura, nei quali si riconoscono chiaramente elementi desunti da Donatello, Michelangelo, il Sansovino, ma sappiamo che produsse anche piccoli bronzi e raffinati oggetti d’oreficeria. All’inizio del 1553, di ritorno da un viaggio compiuto a Genova insieme al Martini nel dicembre dell’anno precedente, Pierino si spense nella città di Pisa, dopo aver accusato una serie di sintomi riconducibili con ogni probabilità alla malaria. I lavori superstiti e la descrizione di quelli perduti o non rintracciati ci danno la misura di un giovane talento pienamente padrone dei propri mezzi, sicuro di sé e già maturo, il cui luminoso percorso fu bruscamente interrotto da una malattia dal decorso mortale. La sua scomparsa venne commentata con toccanti parole da Benedetto Varchi e dal Bronzino, a cui è attribuito anche un dipinto che forse ritrae le fattezze del giovane scultore toscano. (Barbara Prosperi)