Con un giorno di ritardo (e la sfilata e corsa di venerdì slittata a lunedì 30 settembre) è andato in scena il San Michele, la tanto attesa festa di teatro in strada che trasforma ogni anno la piazza centrale e le vie di Carmignano in un palcoscenico a cielo aperto nell’ultimo fine settimana di settembre. Una gara il cui esito è affidato al giudizio di quindici giudici (cinque diversi per ogni giornata) con il palio dei ciuchi invece assegnato sulla base dei piazzamenti in tre diverse corse di due giri di piazza con cambio a metà dei ronzini.
Mancano pochi minuti alle dieci di sabato quando i riflettori si spengono e la voce dello speaker, Stefano Fatighenti, annuncia la discesa del primo rione, il rione Bianco, che porta in scena “Mia carissima mamma” per la regia di Lorenzo Tarocchi. Il titolo ricalca l’incipit di una lettera scritta da Fortunato Picchi, il protagonista, alla mamma dopo essere stato catturato e prima di essere fucilato dai fascisti, lui che da emigrato in Gran Bretaglia si era arruolato nell’esercito inglese.
Picchi, eroe per molto tempo dimenticato, era infatti originario di Comeana, nato nel 1896 in una famiglia povera, ma emigrato a Londra giovanissimo in cerca di fortuna. A Londra diventa vicedirettore in un albergo di lusso, il Savoy Hotel, e soggiorna presso una famiglia londinese dove conosce la sua amata, Florence Lantieri, al cui ricordo è affidato il racconto. Con l’inizio del secondo conflitto mondiale Fortunato decide di arruolarsi con gli Inglesi e partecipa all’Operazione Colossus, ma lui e i compagni vengono catturati e il 6 aprile 1941 sarà fucilato, la stessa notte in cui la madre viene svegliata da un funesto presagio. Se col padre Picchi aveva sempre avuto un rapporto difficile, la madre è per lui la persona più cara, alla quale invoca il perdono dedicando queste ultime parole: “Mia carissima mamma, di morire non mi importa gran cosa, della mia azione mi pento perché proprio io che ho voluto bene al mio paese debbo oggi esser riconosciuto come traditore. Ricordatemi tutti. Chiedo a voi il vostro perdono e la vostra benedizione (…) e a voi cara mamma un abbraccio”. Al testo struggente e commovente, ben recitato in piazza, si aggiungono costumi curati (tra cui spiccano i cappelli a forma di paralume e i vestiti charleston) e una scena finale in cui la pace rappresentata metaforicamente da ragazze con ali bianche si contrappone alla guerra rappresentata da altrettante ragazze con abiti neri a forma di bomba.
Secondo rione in gara è il rione Celeste con “Almeno un milione”,’ una storia corale diretta dall’unica regista rionale, Carolina Fanelli, e rintracciata negli archivi storici del Comune di Carmignano. I protagonisti sono Anna, il conte e Maria, tutti e tre vissuti durante la seconda guerra mondiale.
In questa seconda rappresentazione reale e fantastico si fondono per parlare al pubblico degli effetti di ogni guerra, che abbrutisce i paesi e le città e ferma il tempo. Anche Carmignano che un tempo era bella – dicono i bambini in girotondo – ora non si riconosce più. Commovente nella prima parte dello spettacolo la scena in cui Gino, il bambino orfano, balla insieme alla madre col babbo morto che lo segue danzando. Seguono le storie del conte che ha perso un figlio in guerra, studente di lettere a Milano poi entrato in un gruppo partigiano, e di Maria che ha perso il suo più caro amico.
La Morte, evocata dai bambini come una strega, fa da collante in ogni quadro, essere fantastico eppure tangibile che è possibile sconfiggere praticando l’amore e il coraggio. È lei stessa a dichiarare: “Io non smetterò mai di darvi la caccia, c’è sempre un modo per non lasciarmi vincere. Siate coraggiosi”.
Alle musiche contemporanee di Battiato e di Vecchioni fanno da sfondo scene suggestive come quella delle farfalle che escono da teli neri e che si contrappongono alle morti secche e quella finale dell’albero di Natale.
Il rione Verde ha rappresentato “La speranza di ogni terra”, per la regia di Andrea Bruni al suo esordio come regista dei rionali dell’Arte. La storia ruota intorno a due personaggi, un bambino dei nostri giorni di nome Gino e Gino Bartali. A unirli il nonno Vittorio Gori, salvato da bambino proprio dal Bartali che nel corso della seconda guerra mondiale (rappresentata con ombrelli neri che si aprono) aveva salvato centinaia e centinaia di persone in sella alla sua bicicletta da corsa. Si ripercorre quindi la vita del grande campione di ciclismo, dalle prime vittorie a Carmignano dove stringe amicizia col babbo del Gori, al matrimonio con Adriana fino alle successive vittorie tra cui il Giro di Italia nel 1936 e il Tour de France nel 1938. Grande benefattore, non temeva le rappresaglie dei fascisti, convinto che “il bene si fa ma non si dice”. L’umanità che fa la Storia, dove le storie piccole fanno le storie grandi, qui porta le vesti della Speranza, figura allegorica bianca che attraversa il tempo e lo spazio. In un testo lineare e ben recitato in piazza da tutti i figuranti, si alternano musiche moderne e d’epoca; di impatto risultano il carro raffigurante la radio che annuncia di volta in volta le vittorie del campione toscano e la scena finale dove gli ombrelli gialli, rossi, verdi e blu rievocano l’arcobaleno della pace: “Sia la vita e non la guerra la speranza di ogni terra”.
Ultimo a sfilare è stato il rione Giallo con “Che razza di umanità”, spettacolo diretto da Rosario Campisi, anche lui al suo debutto coi rionali del Leone con la storia di Spartaco Nunziati, nato a Carmignano nel 1916 e poi arruolato in Marina militare nel corso della seconda guerra mondiale. Da ragazzo Nunziati è un vorace lettore di romanzi di avventura che gli vengono regalati dal suo amico di Firenze, Quintino. Legge almeno venti volte “Ventimila leghe sotto i mari” di Jules Verne e, appena diciottenne, sale sulla sua bicicletta e arriva fino a Livorno, dove viene ammesso nel compartimento marittimo. Siamo nel 1934 e Nunziati si trova sul sommergibile Gondar, che tra il 29 e il 30 settembre 1940 viene bombardato in prossimità del porto di Alessandria d’Egitto. Nunziati riesce a salvarsi rimanendo su una tavola di legno per nove ore, ma vede morire i compagni intorno a lui e infine viene deportato in un campo in India. Anche dalla prigionia si salva, tornando a casa, dove trova madre e sorella intente a pregare e dove sposa Bruna, che gli appare come una madonna. Suggestivi i carri raffiguranti le maschere dei carabinieri e le strutture in nylon evocative dei corpi morti per annegamento. Il messaggio finale, comune un po’ a tutte le rappresentazioni, è di rendere universale una storia particolare. Tutto si può umanizzare tranne la guerra, “che razza di umanità”.
Al termine delle rappresentazioni è stata disputata la prima corsa dei ciuchi, che ha segnato la vittoria del rione Celeste, seguito da Verde, Giallo e Bianco. (Valentina Cirri)