I cento anni di Reana Biagini

Reana Biagini, nata e cresciuta a Comeana, ha compiuto cento anni. In suo onore lo scorso 30 novembre 2024 è stata organizzata una festa, alla quale ha partecipato il sindaco Edoardo Prestanti che l’ha premiata con uno speciale riconoscimento. Noi della redazione della Pro Loco Carmignano l’abbiamo incontrata a seguito dell’importante traguardo raggiunto per farci raccontare le sue memorie contadine, essendo lei figlia di agricoltori di mezzadria in un podere a coltura promiscua, e le memorie di giovinezza tra la guerra e la successiva costruzione della famiglia insieme al marito Ezio Cintolesi.

“Sono nata il 30 novembre 1924 nella casa che si trova sulla strada che da Comeana porta ad Artimino – racconta Reana Biagini – la casa aveva quattro stanze al primo piano, una al piano terra più una cantina e una stalla. La casa non era nostra ma del padrone, il Conte Michon Pecori, perché i miei nonni e i miei genitori erano mezzadri che rispondevano alla fattoria di Calavria”. Primogenita di altri due fratelli – Aladino e Franco – Reana ha vissuto in una famiglia formata dai nonni paterni (Tommaso Biagini e Maria Concetta Lombardi) e dai genitori (Antonio Biagini e Palmira Sartoni, quest’ultima originaria del Mugello e trasferitasi a Comeana a causa del terremoto).

“Essendo io la prima figlia mi veniva chiesto spesso di badare ai fratelli minori e di attendere alle faccende domestiche – prosegue Reana – aiutavo la mamma a rifare le camere e a cucinare, ogni tanto mi veniva richiesto dal nonno e dal babbo di dare una mano anche nel lavoro dei campi”. Il lavoro nei campi seguiva il ciclo delle stagioni: da maggio a luglio c’erano la semina del granturco e dei fagioli e il lavoro più faticoso, la mietitura a mano del grano; ad ottobre iniziava la raccolta delle olive per la produzione dell’olio – una metà del quale bastava per il consumo familiare mentre l’altra metà veniva consegnata al padrone – a novembre veniva seminato il grano.

“Il lavoro nei campi – in particolare la mietitura del grano a mano con la falce – non era semplice, si lavoravano le prime ore della mattina e alcune ore anche il pomeriggio, bisognava stare piegati e faceva male la schiena, poi c’era il sole che bruciava la pelle e gli insetti che pungevano, per cui dovevo portare le calze anche in estate. All’epoca avere la pelle abbronzata per via del sole era una vergogna” – continua Reana.
Il lavoro nei campi non era l’unica attività pesante che le veniva richiesta: tempo per giocare non c’era, bisognava il più possibile darsi da fare per aiutare la famiglia anche perché la casa – come le casa di allora – era sprovvista di acqua corrente, che doveva essere procurata per cucinare e per l’igiene personale.

“Andavo a prendere l’acqua anche due volte al giorno, la mattina verso le undici e a volte anche la sera. Ho iniziato all’età di dodici anni, portando con me quattro fiaschi da due litri e mezzo. Per procurarsi l’acqua c’erano due modi: un pozzo nella zona dei Fontini oppure la fonte di vivaio che si raggiungeva a piedi, attraversando il rio Elzana e poi passando attraverso una strada e una stradina si arrivava in Gonfolina. Vicino a dove si trova adesso villa Vittoria c’era un sottopassaggio che era sempre pieno di serpi, allora facevo rumore per farle scappare e dopo passavo io. Alla Gonfolina c’era anche un’altra fonte che si poteva raggiungere in bicicletta, al ritorno facevo la strada a piedi”.

Anche il modo di fare il bucato avveniva in maniera artigianale, in casa nel focolare con un sistema di lavatura dall’alto nella stagione invernale oppure nel fiume Ombrone nella buona stagione.
“I panni li lavavamo sempre a mano, in estate li portavo con un paniere al lavatoio dell’Ombrone dove il fiume fa una curva, si doveva stare dove il fondale era basso, anche per tre ore sotto il sole. In inverno lavavamo in casa mettendo i panni nelle conche di coccio, sopra un panno veviva messo la cenere del focolare su cui veniva buttata via via acqua fredda, tiepida e calda che formava il ranno che sbiancava i panni. Le lenzuola le mettevamo dentro le conche già insaponate con la lisciva. Per lavarci usavamo una tinozza che riempivamo in camera da letto col paiolo pieno di acqua calda perché eravamo senza bagno”.

All’inizio degli anni Trenta, quando ancora non aveva compiuto sei anni, Reana Biagini iniziò a frequentare la scuola elementare, completando la classe quarta perché nel frattempo anche i fratelli maschi più piccoli avevano iniziato ad andare a scuola. C’erano vari edifici adibiti a scuola a Comeana: due cooperative, una in piazza Cesare Battisti e una in via Veneto, avevano dato alcune loro stanze per gli studenti. In più c’era la nuova scuola elementare in via Garibaldi, inaugurata proprio l’anno in cui Reana iniziò il suo percorso scolastico: a differenza dell’edificio attuale con aule su due piani, allora c’erano solo quattro stanze al piano terra adibite all’insegnamento.

“Ero bravissima in matematica, meno in italiano perché a casa non avevo tempo di leggere. La mia maestra, Zaira, insegnava tutte le materie, veniva a piedi dalla stazione di Carmignano e spesso, incrociandola per strada, le portavo la borsa. Era sempre carica di libri”. Reana frequentò le prime quattro classi della scuola elementare al tempo del regime fascista, che imponeva la divisa da piccola italiana alle femmine e da balilla ai maschi durante le ore di ginnastica e durante le manifestazioni pubbliche. La mamma di Reana non gliela cucì e per questo motivo fu rimproverata dalla scuola.

La storia di Reana, negli anni Quaranta, si incrociò inevitabilmente alla storia mondiale della guerra, che ha interessato anche il paese di Comeana. “Avevo sedici anni quando è scoppiata la guerra, Comeana è stata bombardata due volte perché era vicina alla fabbrica Nobel. Quando sentivamo bombardare scappavamo nei campi, anche in inverno. Io e miei fratelli siamo stati sfollati varie volte, da una cugina del babbo vicino al fiume Elzana, da un contadino – un certo Fiaschi – vicino al Mulino e dalla zia Assunta (Nisi) che abitava a Poggilarca. Dopo qualche giorno anche lì sono arrivati i Tedeschi, sono entrati in casa e ci hanno messo a sbucciare patate e mentre lo facevamo ridevano di noi”.

Anche in casa di Reana entrarono i Tedeschi. Una sera, alle nove, si fermò una macchina davanti alla casa. Lei, il babbo e il fratello maggiore si buttarono dalla finestra. In casa rimase la mamma col fratello più piccolo. I Tedeschi presero quello che c’era, tre pani sulla tavola, un prosciutto e tre damigiane di vino e buttarono della paglia in terra per dormire. Prima di andare via rubarono anche tutte le galline. Poi arrivò l’11 giugno del 1944, un atto di Resistenza compiuto da otto partigiani in corrispondenza della stazione di Carmignano. Questo atto, per lungo tempo caduto nel totale silenzio, era finalizzato al sabotaggio di un treno, carico di tritolo e diretto in Germania. L’esplosione dei vagoni causò la morte di quattro dei partigiani, i fratelli Bogardo e Alighiero Buricchi, Ariodante Naldi e Bruno Spinelli, la cui memoria è affidata al cippo dei caduti di Poggio alla Malva.

“Eravamo a letto e sentimmo un gran boato, si ruppero i vetri alle finestre e scappammo in mezzo alla strada. Quella sera i Tedeschi erano dove adesso c’è villa Vittoria, passarono da casa nostra e mio fratello chiese spiegazioni ma nessuno sapeva nulla. La mattina scoprimmo quello che era successo”.

Dopo la fine della guerra, Reana restò a vivere in casa insieme ai genitori e si fidanzò con Ezio Cintolesi, che conosceva fin da piccolo perché la mamma aveva preso in balìa suo fratello minore. “Ezio era partito militare nel gennaio del 1942 e fu mandato in Montenegro, lì fu fatto prigioniero dai Tedeschi e portato a lavorare nelle retrovie del fronte russo, dove fu fatto prigioniero dai Russi e portato in Siberia. É tornato nel luglio del 1946. Durante gli anni di assenza non seppe che la madre era morta, ferita da una zolla di terra che le piombò addosso mentre si nascondeva nel fossone durante uno dei bombardamenti di Comeana”.

La famiglia del marito abitava nella casa di società in via Macia: il padre, lo zio e i figli erano tutti artigiani. “Ci siamo sposati nel 1951, dopo pochi mesi è nato Vittorio nel 1952, Giovanna nel 1955 e Alberto nel 1959. Sono andata ad abitare in casa di mio marito, mio suocero ci aveva ceduto la camera da letto. In casa ero l’unica donna”. Nella sua nuova casa Reana doveva badare a quattro uomini (Ezio, il fratello Giovanni, il suocero e uno zio). Ogni mattina doveva preparare la colazione e il pranzo per tre persone (il marito, il fratello e lo zio) che erano scalpellini alle cave in Gonfolina.

“Vicino a casa abitava una vedova di nome Amabile che era cugina di una zia, morta poco tempo prima, le fu chiesto di venire ad aiutarmi perché ero l’unica donna in casa e incinta del primo figlio”.
Del lavoro gli uomini in casa parlavano molto poco, si verificò anche un incidente nel corso del quale un compagno di lavoro rimase schiacciato da un masso e morì. Poco dopo Reana e Ezio costruirono una nuova casa vicina all’attuale circolo Arci: in questa abitazione si trasferirono nel marzo del 1957. “In questa nuova casa, dove siamo rimasti fino al 1968, badai al suocero e allo zio, che soffrivano di cuore, forse a causa della polvere delle cave. Quando il lavoro alle cave diminuì mio marito si mise in proprio con un’attività di marmista a Poggio a Caiano”.

All’inizio degli anni Sessanta il paese di Comeana era pieno di negozi e si poteva comprare di tutto, mentre adesso di botteghe e di negozi ne sono rimasti ben pochi. All’epoca c’erano cinque barbieri, un merciaio, una bottega di vestiti da uomo, il generi alimentari “Ceccanino”, una merceria e cartoleria, un ortolano, il bar e apparto del Piccini, la macelleria del “Rosso” (nonno di Nedo Ciardi), un calzolaio, un’altra macelleria vicino al calzolaio, il forno del Mazzoni, un negozio di cocci.

“Siamo tornati ad abitare nella mia attuale casa nel 1968, è stata l’ultima casa della strada ad essere costruita, prima c’era un campo. Avevamo quattro camere, tre erano per il suocero, lo zio e il cognato e ne costruimmo una quinta più piccola per i figli”. I figli erano tutti bravi a scuola, del loro percorso di studi Reana ed Ezio parlarono sempre insieme. Siccome Vittorio era particolarmente dotato, frequentò il liceo statale Cicognini a Prato e l’ultimo anno al liceo Copernico, per poi iscriversi all’università. Anche gli altri due figli proseguirono gli studi: Giovanna studiò ragioneria e Alberto geometra. (Valentina Cirri)

 

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