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Streghe, paure e pratiche magico sacrali sopravvissute fino ad oggi
C’ERA un tempo – quello dei miei nonni, dei miei genitori come pure della mia infanzia (meno di venticinque anni fa) – in cui streghe, “paure” e pratiche guaritrici magico-sacrali sopravvivevano ancora nella cultura di ogni giorno. Più che le prime, soprattutto queste ultime. Ed anche se magari in pochi oramai davano l’impressione di crederci davvero, quando un occhio si gonfiava o la pancia faceva male non mancava mai (pressoché in ogni famiglia di Poggio, Carmignano od anche altrove) l’immancabile zia che “cucisse” la razzaiola o la nonna che segnava i bachi.
Si può presumere che la credenza verso streghe e paure derivasse dalla necessità di dare spiegazione a fenomeni altrimenti non spiegabili; le paure servivano a giustificare rumori ed ombre notturne inquietanti. Quanto alle pratiche guaritrici, avevano trovato terreno fertile nelle scarse risposte sanitarie di qualche anno prima. Ma c’era un indiscusso filo continuo che legava una religiosità diffusa e queste credenze, fino a mischiarne i confini. L’uso infatti ripetuto, in questa sorta di medicina popolare, di vino e pane, acqua e sale, aglio e zolfo, olio ed olivo benedetto, ancorché materiali di facile reperibilità (e per questo forse preferiti), si caricava di un forte significato simbolico e non mancava di continui rimandi e contaminazioni. Nelle formule orali recitate in maniera sommessa ed accompagnate da gesti apparentemente senza senso compariva più volte la parola “santo” o i nomi di Gesù e Maria. Ed anche il tre era un numero spesso ricorrente.
Ecco così che si curava il “malocchio” con un piatto d’acqua posto sulla testa di chi riteneva di averlo ricevuto. Dentro vi si versavano per tre volte tre gocce d’olio. Se questo si disperdeva, il medicato doveva immergere le dita nel piatto e bagnarsi le tempie. Per le bestie poteva bastare un’immagine di Sant’Antonio affissa nelle stalle o per le vigne un mazzetto di olivo benedetto legato all’inizio di ogni filare. Lo spavento si curava invece con l”erba della paura”. Raccolta preferibilmente nei boschi (perché aveva più forza di quella nei campi) era seccata per conservarla. Per preparare l’infuso si poteva aggiungere una crosta di pane, tre foglie di olivo benedetto ed una manciata di sale sopra il coperchio (oppure anche erba mortella). Poi con quest’acqua si lavavano per tre volte il viso e le giunture delle gambe e delle braccia, facendo scivolare le mani sempre verso il basso.
C’era davvero una cura per ogni male. Per le “razzaiole” si “faceva le viste” di cucire l’occhio malato con un ago ed un filo che avesse un nodo all’estremità. La formula da invocare era: “In nome di Gesù e di San Pietro, che la razzaiola torni indietro”. Per le verruche si usavano olio e semi di camomilla scaldati in un cucchiaio e versati per tre volte sulla parte malata. Qualche foglia di olivo benedetto, anche in questo caso, era sempre preferita. L’aglio infine era il toccasana per i “bachi”. Un sussulto nel sonno, causato dal suo sfregamento contro il naso, era il segnale della loro presenza. Per scacciarli si doveva di nuovo odorare l’aglio. Ma si potevano anche segnare facendo colare dello zolfo fuso in acqua. Oppure incantarli. Tante potevano essere le formule da usare: “Rimandi il Maestrale, che ritorni al suo canale” oppure “…San Giobbe ebbe i bachi, Gesù glieli incantò”, “… la domenica di Pasqua, tutti i bachi vanno in acqua”. E chi “medicava” generalmente era una donna, la quale spesso aveva ricevuto da un’altra più anziana le formule ed imparati i riti, per poi verificare il suo effettivo potere. (wf)