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Antica tradizione toscana
Fino a non molto tempo fa nelle zone rurali e non solo della Toscana – ma anche in altre regioni d’Italia – erano ancora diffuse alcune pratiche in cui si fondevano in maniera difficilmente distinguibile conoscenze erboristiche e credenze popolari, dando vita a singolari rituali come quello legato alla cosiddetta erba della paura, che culminava in un lavaggio purificatore che doveva condurre il paziente a recuperare il benessere perduto.
L’erba della paura non è altro che una pianta medicinale nota come siderite o catiorà, ma il cui nome scientifico è stachys recta, rinomata fin dall’antichità per le sue proprietà febbrifughe, antinfiammatorie e cicatrizzanti, ed utilizzata soprattutto in forma aerea per liberare le vie respiratorie durante i malanni della stagione invernale, grazie alla sua azione lenitiva e decongestionante che si sprigiona al meglio attraverso i suffumigi.
Dalle nostre parti però – e più in generale nell’area geografica dell’Appennino tosco-emiliano – veniva adoperata principalmente per eliminare la paura, ovverosia per curare qualcuno che aveva provato un grosso spavento, un forte turbamento che come spesso si diceva gli aveva fatto rimescolare il sangue, togliendogli la serenità e non di rado il sonno e l’appetito, in poche parole peggiorando sensibilmente la sua qualità di vita.
A tale scopo veniva preparato un decotto usando una manciata di erba essiccata, a cui talvolta si aggiungevano un pizzico di sale, qualche foglia di olivo benedetto e un pezzo di pane, dopodiché la persona interessata veniva sottoposta a delle abluzioni da un guaritore che la bagnava gradualmente dall’alto verso il basso, ripetendo la formula “Col nome di Gesù e di Maria la paura vada via, col nome di Gesù e di San Pietro la paura torni indietro”.
Se l’acqua perdeva la sua limpidezza e diventava scura, di colore marrone, torbida e densa, significava che il rituale si era rivelato efficace. A seconda dei casi esso poteva essere ripetuto più volte finché l’acqua non diventava chiara, ma solo in particolari giorni della settimana. La tradizione voleva infatti che dovessero essere scartati il martedì, il mercoledì e il venerdì, cioè i giorni che contengono la lettera “r”, e che di conseguenza fossero considerati propizi i rimanenti.
Anche per la raccolta dell’erba non andavano bene tutti i giorni dell’anno, ma si sceglievano delle ricorrenze ben precise, come l’Ascensione (quaranta giorni dopo la Pasqua), la Natività di San Giovanni Battista (24 giugno) o il periodo compreso “tra le due Madonne”, ovvero l’Assunzione (15 agosto) e la Natività (8 settembre) della Vergine Maria, feste che hanno fatto guadagnare all’erba della paura anche il nome di erba della Madonna.
In tutti i paesi prima c’era almeno un guaritore – o segnatore, perché “segnava” la paura –, depositario discreto di un antico sapere che veniva tramandato attraverso un’investitura e che si adoperava a titolo gratuito. Oggi sono rimasti in pochi a saper “lavare la paura”, una pratica sulla cui validità ai nostri giorni ci si interroga con crescente scetticismo, ma anche con la consapevolezza che questa antica tradizione appartiene alla memoria del nostro passato, e come si è sempre detto “se non fa bene di sicuro non fa neanche male”.
Per chi fosse interessato ad approfondire l’argomento si consiglia la lettura del libro “L’acqua della paura. Il sistema di protezione magico di Piteglio e della Montagna pistoiese” di Arianna Cecconi, antropologa di fama europea che sulla cosiddetta erba della paura e non solo ha condotto una ricerca approfondita sull’Appennino pistoiese, poi sfociata nel saggio edito da Bruno Mondadori Editore, presentato a Carmignano nell’estate del 2023. (Barbara Prosperi)