L’olivicoltura si pratica da secoli (e forse millenni) sul Montalbano. La vita nei campi negli ultimi decenni è però cambiata e così anche anche la raccolta e la lavorazione delle olive. Si sono persi i frantoi con le macine in pietra, oramai quasi scomparsi, ma la tecnica ha portato anche a migliorare la produzione e la qualità in molti casi. Ciò non toglie che un certo mondo oramai appartiene al passato. Lo rievoca e ce lo racconta Attilio Gradi (classe 1940), nativo di Carmignano, in particolare della zona del Bagno nella frazione de La Serra, che ancora continua a coltivare il piccolo podere del padre.
“Sono nato in una famiglia contadina – inizia -, il babbo lavorava in un podere di Villa Rasponi in regime di mezzadria. Tutti in famiglia lavoravamo la terra, soltanto io nel 1956 sono andato a lavorare in fabbrica perché il lavoro dei campi non permetteva di guadagnare abbastanza”.
La famiglia del Conte Rasponi era proprietaria all’epoca di tre fattorie, una nel Chianti, una a Pisa e una a Carmignano che era la più piccola e contava quattordici poderi. Sul podere la famiglia di Attilio si dedicava all’agricoltura secondo una coltivazione promiscua e allevava il bestiame. I principali prodotti erano olio, vino, fichi secchi, grano, cereali e ortaggi. “Grazie al lavoro della terra avevamo sempre qualcosa da mangiare – racconta -, per il resto invece c’era più miseria. Durante il dopoguerra mi ricordo che la mamma vendeva uova e ortaggi alle persone del borgo del Bagno e con il ricavato di questa piccola attività procurava la biancheria per tutta la famiglia”.
Poi, tra tra gli anni ’70 e ’80 del Novecento, la mezzadria anche a Carmignano cessa praticamente di esistere e ad alcuni mezzadri, come nel caso di villa Rasponi, viene proposto di diventare proprietari del terreno finora coltivato. “Anche il babbo ricevette la proposta – ricorda Attilio -All’inizio non ero favorevole all’acquisto, perché avevo lasciato la terra da giovane. Il babbo però considerava il podere come suo, perché ci era nato e ci aveva vissuto, e per questo nel 1987 lo abbiamo comprato”.
Negli anni ’50 il podere era però più grande, attualmente ha invece un’estensione di due ettari e mezzo e le principali coltivazioni sono vino per consumo familiare e olio. Non vengono più prodotti i fichi secchi, anche se sul podere ci sono ancora venticinque piante, tutte di dottato e una di verdino. La produzione di olio era di circa quindici quintali all’anno, anche se c’era sempre un anno di perdita: ora la media oscilla da sette a quindici quintali all’anno, a seconda della stagione. Le piante sono però aumentate: 549 in tutto. Di queste, cento sono costituite da pendolino o piangente, altre cento da frantoio e la parte restante da moraiolo.
E’ cambiata anche la raccolta delle olive. A metà degli anni ’50 era eseguita a mano con uno strumento chiamato ‘bruscola’, dalla tipica forma a borsa di canguro fatta di vimini o di ritalbe che serviva a contenere i frutti. “Ai tempi del babbo ricordo che a noi bambini veniva concesso di raccogliere da terra le olive cadute dall’albero – continua Attilio – e con quelle veniva prodotto il cosiddetto ‘olio dei raccattaticci’. Non era un olio di qualità ma noi bambini eravamo contenti di aver dato un piccolo contributo alla raccolta”. In seguito la brucatura a mano è stata sostituita dal paracadute, ovvero i teli stesi per terra attorno agli alberi, da rastrelli o pinze e infine, in qualche caso, dalla raccolta meccanica.
Al pari della raccolta è cambiata molto, negli anni, anche la frangitura. Inizialmente le olive venivano portate al frantoio, dove le macine in pietra erano mosse dal bestiame e spesso da un somaro. Non esistevano depuratori, l’olio veniva raccolto in una vasca e pescato con uno strumento in acciaio, detto ‘annappo’, che lo separava così dalla morchia che rimaneva sul fondo. A partire dalla metà degli anni ’50 vengono introdotti i depuratori per separare l’olio dall’acqua. La frangitura si svolgeva allora secondo un sistema ‘a castello’ che produceva l’olio a freddo. Sopra tre pannelli di tela juta veniva disposta la pasta delle olive e sopra un disco di ferro. Il castello così costruito poteva essere alto anche due metri e veniva stretto con un bilico a vite.
“La resa dell’olivo dipende dall’andamento climatico e dalla potatura, che si fa da febbraio ad aprile – racconta Attilio -. A potare ho imparato dal babbo, che ripeteva sempre che l’olivo deve essere vuoto dentro e tondo fuori come il limone”.
Si pota in inverno perché la fioritura dell’olivo inizia tra la fine di maggio e l’inizio di giugno. Sull’olivo compaiono le mignole, quando i fiori cadono si formano per allegagione le olive. “Quando le olive raggiungono la grandezza di una pallottola di fucile vengono ramate con un trattamento contro la tignola, che si installa quando i fiori sono aperti e rimane dentro le olive, di cui causa in un secondo momento la caduta. Almeno così faccio io, seguendo gli insegnamenti del babbo” dice Attilio. Per crescere le olive hanno bisogno dell’esposizione al sole e di un clima asciutto. Se l’annata è piovosa il nocciolo prevale sulla pasta delle olive, inoltre a ciò si aggiunge anche una maggiore probabilità di attacco da parte della mosca olearia. “Contrariamente a quello che si pensa – spiega Attilio – la mosca olearia, che nidifica sull’olivo, non danneggia la pianta ma soltanto i frutti”. Se il clima è umido e l’estate e piovosa intorno ai 20-25 gradi, la mosca nidifica dentro le olive, perché attratta dal profumo dell’olio, danneggiando così la produzione.
In condizioni normali l’olio nuovo ha un colore verde intenso e un sapore amaro nei primi mesi. L’amaro dipende però dallo stato di maturazione delle olive. “La raccolta si svolge da metà ottobre a dicembre – conclude Attilio – e tutte le volte che raccolgo le olive e produco l’olio il suo sapore cambia, inizialmente più amaro per poi acquisire un sapore più dolce nei mesi successivi”. (Valentina Cirri)
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Tra carciofo e fruttato, la raccolta del 2015
L’olio nella storia