La nascita della comunità, della chiesa e del convento minoritici di Carmignano viene tradizionalmente fissata al 1211, anno in cui San Francesco d’Assisi e il beato Bernardo di Quintavalle si fermarono nel borgo per annunciarvi la buona novella. Il popolo carmignanese accolse fin dall’inizio con calore prima i due frati assisiati e poi i discepoli che aderirono al loro Ordine, e si strinse di slancio intorno ad essi per seguirne la predicazione e l’esempio. Grazie al grande riscontro ottenuto nel villaggio, nel corso dei secoli furono costruiti due diversi edifici ecclesiastici: mentre del primo – che è stato pesantemente alterato per ospitare una nuova costruzione – non è più possibile ricostruire l’aspetto originario, del secondo – che ha subito delle modifiche ma conserva la struttura dell’epoca – si può ancora tentare una descrizione seppur sommaria sia dell’architettura che della decorazione pittorica degli albori.
Per quanto venga riferito che Francesco abbia albergato nel complesso conventuale di Carmignano, nello specifico la sua fondazione viene però attribuita al solo Bernardo, come attestano la memoria popolare e la maggior parte delle fonti documentarie, benché posteriori di alcuni secoli rispetto agli avvenimenti presi in considerazione. Questo non può che significare che a differenza di San Francesco il beato Bernardo dovette trattenersi per un periodo di tempo abbastanza prolungato nei pressi del borgo, oppure che vi tornò in un secondo momento, per seguire da vicino i primi sviluppi della comunità che vi era sorta e l’edificazione della chiesa e del convento che si resero ben presto necessari, da un lato per ospitare il numero sempre crescente dei confratelli, dall’altro per accogliere i gruppi sempre più consistenti dei fedeli che si raccoglievano intorno ai religiosi.
Tra le tante testimonianze riguardanti la paternità della fondazione possiamo citare come particolarmente autorevole quella dell’irlandese Lucas Wadding, teologo e cronista dell’Ordine francescano, che negli “Annales Minorum” – imponente opera storica che nell’arco degli otto volumi di cui si compone, pubblicati a più riprese tra il 1625 e il 1654, ripercorse le vicende dei Frati Minori dalle origini fino all’inizio del Cinquecento – fece espressamente riferimento al “coenobium Carminiani, a Beato Bernardo Quinta Vallio acquisitum, ubi floruerunt Beatus Joannes Parens, primus post Sanctum Franciscum Instituti Rector, hoc oppido oriundus” ecc. Pur scrivendo nel XVII secolo, è logico supporre che per stendere la sua cronaca padre Wadding avesse attinto le informazioni da documenti originali appartenuti all’Ordine minoritico, o dell’epoca o di poco successivi.
Secondo il loro costume, i frati si insediarono in un luogo distante dall’abitato, al di sotto delle mura che cingevano il vecchio castello, in un’area boscosa dove una folta vegetazione di pini, querce e castagni si alternava a verdi radure. Al principio il loro riparo dovette essere costituito da delle rudimentali capanne, ma in seguito costruirono un oratorio aperto al pubblico ed un piccolo cenobio. A causa della loro posizione periferica le due strutture vennero ben presto indicate come la chiesa e il convento “al bosco” o “del bosco”. Oggi questa zona appartiene pienamente al centro storico carmignanese ed accoglie il complesso ecclesiastico che fa capo alla pieve di San Michele Arcangelo, chiesa parrocchiale del paese e di alcune delle sue frazioni, frequentata non soltanto dalla popolazione locale in occasione delle celebrazioni liturgiche, ma anche dai turisti, dagli appassionati d’arte e dagli studiosi, che vi entrano per ammirare la splendida pala della “Visitazione”, capolavoro della pittura manierista fiorentina dipinta dal Pontormo.
La prima chiesa edificata dai padri francescani fu innalzata dove è attualmente situata la cappella di San Luca, sul lato del chiostro opposto a quello su cui si affaccia la pieve di San Michele. E’ opinione comune che essa fosse stata intitolata all’evangelista fin dall’inizio, tuttavia è possibile che la dedicazione risalga al 1348, anno in cui la neonata Compagnia del Santissimo Sacramento si insediò nell’oratorio abbandonato dai Frati Minori dopo la costruzione della nuova chiesa, e faccia riferimento al giorno in cui si tenne la prima seduta. La confraternita, si legge negli statuti della medesima, cominciò infatti a riunirsi “il giorno di Sancto Luca pretioso nell’anno Domini MCCCXLVIII a dì 18 di ottobre”. L’edificio subì trasformazioni sostanziali principalmente nell’ultimo quarto del XVIII secolo, quando venne demolita buona parte della struttura muraria, fu modificato il soffitto ed ampliata nel complesso l’estensione dell’intera costruzione. I lavori di restauro si protrassero fino all’ultimo decennio dell’Ottocento, con un intervento conclusivo che riguardò prevalentemente l’ornamentazione pittorica delle superfici.
La seconda chiesa, avviata nel 1330 ed immediatamente intitolata a San Francesco, corrisponde all’attuale pieve di San Michele, e pur essendo stata oggetto di svariati cambiamenti conserva invece inalterati i muri perimetrali e l’impianto complessivo nel suo assetto primordiale. Per edificarla venne adottato uno degli schemi architettonici più cari all’Ordine minoritico, con una vasta aula a singola navata deputata a contenere grandi quantità di fedeli, un presbiterio concluso da tre cappelle absidali, ed una copertura a capriate lignee, secondo una tipologia molto diffusa che era già stata impiegata nell’ultimo ventennio del XIII secolo per la chiesa di San Francesco a Prato. Lungo le fiancate si aprivano alte finestre di cui restano tracce sul lato sinistro all’esterno dell’edificio, mentre sulla sobria facciata dal tetto a capanna era presente un’apertura circolare che doveva forse ospitare un rosone. Per quanto eretta in un periodo storico contraddistinto da costruzioni particolarmente elaborate quali erano quelle appartenenti all’arte gotica, la nuova chiesa di Carmignano si presentava semplice ed austera, in conformità con lo stile di vita caratteristico dei francescani.
All’interno le pareti erano interamente rivestite da una vivace decorazione ad affresco, con storie sacre e figure di santi ritmicamente disposte sopra un alto zoccolo che simulava delle specchiature di marmi policromi, come testimoniano alcuni episodi superstiti rinvenuti nel secondo dopoguerra dietro gli altari, opportunamente staccati, restaurati e riposizionati nella zona absidale nel corso degli anni Sessanta del Novecento. Tali dipinti – un rovinatissimo frammento che raffigura su un duplice registro il “Martirio di Santa Caterina d’Alessandria” e l'”Uccisione di San Pietro martire”, un elegante “Santo Stefano” ed un solido “San Cristoforo” – sono databili ai primi decenni del XV secolo ed ascrivibili a maestri vicini alla cultura figurativa di Lorenzo Monaco, come conferma del resto la coeva tavola dell'”Annunciazione” conservata sul secondo altare di sinistra, considerata a lungo opera proveniente dalla bottega dell’artista. Per la figura del “San Cristoforo” è stata avanzata l’attribuzione ad Andrea di Giusto, un interessante pittore fiorentino attivo al fianco di Masaccio e di Paolo Uccello, che eseguì alcuni affreschi per la cappella dell’Assunta nel duomo di Prato.
In epoca rinascimentale l’edificio si arricchì dello spazioso portico aggiunto alla facciata e successivamente dell’arioso chiostro posto lungo il lato destro della costruzione. Fu però tra la fine del Cinquecento e quella del Settecento che la chiesa venne interessata dalle modifiche di maggior rilievo, che ne mutarono l’aspetto interno in modo radicale: le lunghe fasce affrescate furono eliminate o coperte, le grandi finestre vennero in parte tamponate, alle pareti della navata furono addossati sei grandi altari barocchi in pietra serena, le cui pale originarie vennero perlopiù sostituite da nuovi dipinti ispirati allo stile didascalico tipico della Controriforma, ed altrettanti confessionali, e per finire si ebbe la realizzazione dello stoiato che andò a nascondere con un controsoffitto l’antica copertura a capriate di legno. Sebbene alterato da aggiunte che avevano compromesso le sembianze degli esordi, l’edificio continuava a godere di una severa eleganza, composta e misurata, giacché il Barocco in Toscana non attecchì mai in maniera profonda. Gli ultimi apporti, effettuati nel corso del XIX secolo, riguardarono l’inserimento di un prezioso organo a canne e della relativa cantoria.
Tra il 1947 e il 1948 fu messo in atto un risoluto intervento di restauro che privilegiò il recupero dei caratteri più vetusti della costruzione, attraverso la demolizione di alcuni altari, della cantoria, del pulpito e della volta a cannicci. In tale occasione vennero anche parzialmente riaperte le finestre e create ex novo le quattro vetrate presenti nell’edificio: quella col San Michele posta nell’oculo della facciata e quelle raffiguranti San Francesco, la Madonna col Bambino e Santa Filomena collocate nelle tre cappelle absidali. In definitiva allo stato attuale la chiesa di San Francesco, che prese il nome di San Michele dopo che la vecchia pieve dedicata al principe degli angeli – ubicata a mezza strada tra il castello ed il convento – fu demolita e trasferita di sede presso il complesso conventuale, si presenta come una soluzione di compromesso nella quale convivono fianco a fianco l’anima gotica e quella barocca dell’antica costruzione minoritica, con un risultato finale che possiede complessivamente una sua suggestione e non è privo di armonia, ma che non giustifica le pesanti perdite subite dall’edificio sul piano sia storico che artistico. (Barbara Prosperi)
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