Il Natale di ieri non era lo stesso di oggi. Diverso era il modo infatti con cui ci si avvicinava alle feste religiose, che erano vissute in maniera più sentita, specialmente sotto il profilo liturgico; e il Natale, che fino a non molti decenni fa non conosceva il consumismo frenetico che caratterizza i nostri tempi, non faceva da questo punto di vista eccezione. Ce lo racconta, nel suo libro “Fatti e persone del XX secolo nei ricordi di un anziano”, il compianto Mauro Bindi, memoria storica di Carmignano scomparsa nel 2015 alla ragguardevole età di 92 anni. Lo ricordano molti altri vecchi del paese.
Le novene
A quei tempi si cominciava ad avvertire pienamente il clima natalizio soprattutto con l’inizio della novena, che a partire dal 16 dicembre radunava i fedeli dai punti più sperduti dell’abitato. Allora i richiami festosi delle campane si diffondevano nel silenzio del borgo scarsamente illuminato e nella completa oscurità della campagna per annunciare l’imminenza della funzione. Dalle abitazioni uscivano nella fredda sera invernale le donne anziane, avvolte negli scialli e con gli scaldini celati sotto il grembiule, gli uomini attempati con indosso le giacche dal bavero rialzato o le corte mantelline dal colore verde militare, residuati di guerra, le ragazze seguite dalle mamme attente e circospette, i giovanotti che cercavano un approccio con le ragazze, e per finire gli uomini maturi, che costituivano probabilmente la categoria meno numerosa e approfittavano dell’occasione per scambiare a bassa voce qualche parola tra di loro.
Molti provenivano dalle stradine e dalle viottole dei campi, e prima di entrare in paese lasciavano le lanterne e gli zoccoli non di rado inzaccherati di terra o di fango in un nascondiglio sicuro oppure presso la casa di qualche parente, amico o conoscente e raggiungevano la chiesa calzando all’ultimo momento la scarpe buone della domenica. In breve tempo la pieve di San Michele si riempiva di gente, stipata dall’ingresso fino alla balaustra che fin quasi alla metà del secolo scorso separava la navata dal presbiterio, in un brusio sommesso che veniva appena coperto dal suono dell’organo, che intanto preludiava prima dell’inizio della funzione. Durante la celebrazione dei riti, che fino alla metà degli anni Sessanta erano officiati in lingua latina, risuonavano i canti tradizionali del “Jesus Christus”, del “Magnificat” e del “Rorate coeli”.
Il 24 e 25 dicembre
La vigilia di Natale, nel rispetto della regola dell’astinenza dalle carni, venivano consumati alimenti semplici e di origine prettamente vegetale quali fagioli e ceci, o in alternativa sardine, tonno o baccalà (quest’ultimo solitamente “rifatto”, con il pomodoro, oppure “in zimino”, con i porri), ma non erano in tanti a poter portare in tavola il pesce, specialmente nelle varietà più pregiate. Pochi si attenevano invece alla prescrizione del digiuno, sebbene un detto popolare recitasse che “Chi non digiuna la vigilia di Natale ha corpo di lupo e anima di cane”.
A tarda sera, prima che cominciasse il canto del mattutino, che precedeva la Messa di Mezzanotte, i chierichetti e gli uomini che prestavano servizio in parrocchia affluivano ad uno ad uno nella cucina della canonica, dove la perpetua mesceva a tutti il caffè tenuto in caldo nel grosso bricco, posato sul fornello colmo di carbone che sarebbe poi servito a riempire il turibolo dell’incenso. Sia i riti preparatori che la messa vera e propria possedevano un fascino che oggi non è più percepibile, frutto principalmente della suggestione che dava il fatto di riunirsi in chiesa alla flebile luce di poche lampade, al canto di arcane frasi pronunciate in Latino, nel ricordo partecipato e commosso di un evento miracoloso avvenuto molti secoli addietro. Con ogni probabilità tutta l’atmosfera era cosparsa da una discreta patina di ingenuità, da un sentimento semplice e tuttavia sincero che nell’immaginario collettivo richiamava alla mente la memoria di una lontana veglia foriera di gioia, che in quel momento veniva felicemente vissuta insieme a tanti amici che nella Notte Santa si sentivano fratelli.
Le celebrazioni del giorno di Natale erano particolarmente solenni: raggiungevano il loro culmine con la messa cantata del mattino e si concludevano la sera con i vespri, la benedizione eucaristica e il bacio del Bambinello. Era un’autentica folla quella che prendeva parte a tutte le funzioni. E’ legittimo interrogarsi se una così massiccia affluenza fosse da imputarsi esclusivamente alla fede o anche alla forza della consuetudine o ancora ad un pizzico di superstizione, così come non va trascurato il fatto che all’epoca le occasioni di incontro e socializzazione erano scarse, specialmente tra giovani appartenenti ai due sessi, ad ogni modo è un dato di fatto incontestabile che per un motivo o per l’altro allora le chiese traboccavano di fedeli appartenenti a tutte le classi sociali e a tutte le età. La portata regina del Natale per quanti potevano permetterselo era il cappone, cucinato in brodo oppure in umido.
Vecchio e nuovo anno
Il “Te Deum” di fine anno e le celebrazioni del 1° gennaio ricalcavano quelle del Natale, con tanta solennità e grande partecipazione da parte della popolazione, anche se in queste due occasioni con il passare del tempo cominciava ad affiorare uno spirito laico che preludeva ai festeggiamenti che in anni più recenti hanno portato ai divertimenti che caratterizzano la notte di San Silvestro.
La Befana
L’Epifania era avvertita in modo particolare e veniva considerata la festa dei più piccini, dei bambini e dei ragazzi che in tale ricorrenza (e non in quella del Natale) ricevevano dei piccoli doni. Benché l’entità dei regali elargiti dagli adulti fosse in realtà piuttosto esigua – di norma si trattava infatti di un’arancia, qualche mandarino o fico secco, poche caramelle, dei biscotti o un pupazzetto di pasta dolce abbellito da alcune decorazioni, e assai più raramente di un modesto giocattolo –, ogni dono era vivamente apprezzato, e di solito i fanciulli si riversavano per le strade dell’abitato con un panierino in mano per mostrare ai parenti e agli amici i regali portati dalla Befana. Nella piazza principale alcuni negozi (aperti nonostante la festività) esponevano sulla loro porta un fantoccio imbottito di paglia, rivestito con una gonna ed un corpetto, munito di corbello e scopa, a rappresentare la vecchina che di notte porta i doni ai bimbi buoni e il carbone a quelli cattivi.
Nel pomeriggio, prima dei vespri, veniva celebrato il rito della benedizione dell’acqua. Due grosse conche piene di acqua benedetta erano allora collocate sotto il chiostro della pieve e la sera, una volta terminate le funzioni religiose, la gente passava ad attingerla con fiaschi e bottiglie per portare a casa l'”acqua santa”, che veniva versata nelle piccole pille domestiche poste normalmente all’ingresso delle camere e a capo del letto perché in ogni nucleo familiare ci si potesse quotidianamente aspergere mediante il segno della croce prima di coricarsi e al momento di alzarsi. In consonanza con il detto “L’Epifania tutte le feste la porta via”, la sera del 6 gennaio veniva percepita da tutti la sensazione che qualcosa di bello stesse sfumando, insieme al genuino sentimento di bontà e fratellanza che l’atmosfera natalizia aveva originato nel cuore delle persone. Si chiudeva così il capitolo delle festività di fine ed inizio anno e ci si preparava ad avviarsi verso il lungo cammino in direzione della Pasqua.(Barbara Prosperi)
Le feste di Natale una volta
Un viaggio nei ricordi dei più anziani
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