Dopo aver trascorso più di diciassette anni nella città sforzesca, alla fine del 1499 Leonardo si trovò costretto ad abbandonare il ducato di Milano, incerto sulla direzione da prendere. Lo accompagnavano Salaì ed altri assistenti. L’artista aveva bisogno di trovare un nuovo mecenate che gli assicurasse del lavoro, e con esso introiti sicuri che gli dessero la possibilità di mantenere se stesso e i suoi aiutanti, ma ancor più l’opportunità di proseguire gli studi e gli esperimenti nei suoi molteplici campi d’interesse. Decise così di presentarsi a Mantova, alla corte dei Gonzaga, dove Isabella d’Este – moglie di Francesco II e cognata di Ludovico il Moro – aveva fama di essere un’appassionata e munifica amante delle arti; qualche anno addietro la donna aveva visto la “Dama con l’ermellino” e ne era rimasta profondamente colpita, e da allora coltivava il desiderio di farsi ritrarre dal Vinci, che auspicava di legare a sé sostituendolo all’ormai anziano Andrea Mantegna, autore insieme ad altri importanti pittori del tempo della decorazione dello studiolo di Palazzo Ducale. L’artista toscano realizzò il disegno preparatorio per il ritratto di Isabella, oggi custodito al Louvre, ma non mise mano al dipinto, e nonostante l’accoglienza calorosa della duchessa lasciò Mantova e partì verso un’altra meta, trovando forse angusto e limitato l’ambiente che lo aveva accolto, certamente più chiuso e dotato di minori possibilità economiche rispetto a quello del capoluogo lombardo.
All’inizio del 1500 Leonardo arrivò a Venezia, dove incontrò nuovamente il vecchio amico Luca Pacioli, con il quale collaborò probabilmente alla stesura definitiva del trattato “De divina proportione”, che in fase di stampa venne impreziosito con illustrazioni derivate da disegni forniti dall’artista. Le autorità della repubblica lagunare gli chiesero di ideare dei sistemi di difesa contro i ripetuti attacchi da parte delle armate turche, ma la proposta di Leonardo, che presentò il progetto di una diga mobile da collocare sul fiume Isonzo, da rimuovere al momento del bisogno per riversare delle inondazioni sui nemici accampati sulla terraferma, venne bocciata perché troppo costosa; l’inventore si applicò allora a trovare nuove soluzioni, ma alla fine nessuna di esse vide la luce perché in breve tempo si mise nuovamente in viaggio, non senza avere però lasciato traccia della sua permanenza nell’ambiente artistico locale, che recepì alcuni aspetti caratteristici della sua produzione pittorica.
Nella primavera del 1500 rientrò a Firenze, da dove mancava da diciotto anni, e in un primo momento venne ospitato a Fiesole dal canonico Alessandro Amadori, fratello della matrigna Albiera, la prima moglie di ser Piero, che nel frattempo si era sposato per la quarta volta e aveva avuto almeno altri quattordici figli. I rapporti con il padre e i fratelli erano forse impacciati, Leonardo conobbe presumibilmente la maggior parte di essi per la prima volta, e anche se era un artista famoso e celebrato per loro in fondo rimaneva “il bastardo”, il figlio nato fuori dal matrimonio e pertanto non autorizzato ad aspirare ad alcun riconoscimento da parte della famiglia paterna, tanto che dopo la morte di ser Piero i fratellastri si coalizzarono per non dividere con il primogenito illegittimo i beni lasciati in eredità dal padre, ai quali il pittore tutto sommato rinunciò senza opporre una vera resistenza. Spentosi il Magnifico, cacciati i Medici, giustiziato il Savonarola, la città si accingeva ad essere governata dal gonfaloniere a vita Pier Soderini, ed era profondamente cambiata dai tempi in cui l’artista lavorava nella bottega del Verrocchio.
Stretto dalla necessità economica, Leonardo ricevette con sollievo l’incarico di realizzare un dipinto per l’altar maggiore della Santissima Annunziata dall’ordine dei Servi di Maria, commissione a cui in seguito rinunciò per aiutare il vecchio amico Filippino Lippi, che a suo tempo aveva sostituito il collega in due importanti allogagioni che egli non aveva condotto a termine. Per l’occasione Leonardo si trasferì nel convento dei serviti e approntò il cartone per la pala, una bellissima composizione con la “Sant’Anna, la Madonna, il Bambino e San Giovannino”, che venne esposta per alcuni giorni nel chiostro della basilica suscitando la meraviglia della popolazione, ammirata e stupita; benché sia stato scambiato a lungo con l’esemplare presente alla National Gallery (eseguito con ogni probabilità qualche anno più tardi per Luigi XII), considerate le notevoli divergenze esso deve essere oggi considerato perduto, anche se è probabile che da quel prototipo sia stato ricavato il dipinto conservato al Louvre, eseguito comunque svariati anni più tardi, dal momento che sembra che anche questa volta l’artista non portasse a compimento o comunque non consegnasse la pala d’altare.
Nel frattempo Isabella d’Este, che non riusciva a rassegnarsi all’idea di aver perso Leonardo, dal quale desiderava ottenere non soltanto il ritratto ma anche altri quadri da aggiungere alla decorazione dello studiolo, chiese al frate carmelitano Pietro da Novellara di intercedere in suo favore presso il pittore, ma nella lettera che nel 1501 il religioso inviò da Firenze alla duchessa si legge testualmente che “li suoi esperimenti matematici l’hanno distratto tanto dal dipingere che non può patire il pennello”. Dunque l’artista continuava ad essere immerso nei suoi innumerevoli studi, che lo distoglievano e lo allontanavano costantemente dall’esercizio della pratica pittorica.
Nel 1502 Leonardo si spostò a Cesena per entrare al servizio di Cesare Borgia, detto il Valentino, il crudele condottiero figlio di papa Alessandro VI, conosciuto tempo addietro a Milano, che lo ingaggiò come architetto ed ingegnere militare. Per lui l’artista passò da Pavia ad Urbino, ispezionando e valutando la solidità delle fortificazioni nelle città conquistate dal Borgia, con lo scopo di rafforzare oppure far costruire ex novo architetture sia civili che militari in grado di difendere efficacemente i territori che si estendono sotto il dominio del Valentino, per il quale studiò anche macchine volanti, strumenti per la guerra sottomarina e un nuovo tipo di polvere da sparo. In quell’occasione incontrò e strinse un importante legame d’amicizia con Niccolò Machiavelli, probabilmente già conosciuto anche se in maniera superficiale a Firenze.
Rientrò nel capoluogo toscano nel 1503, dopo aver assistito al sanguinoso assedio di Urbino ed essere scampato per un soffio alla caduta del Borgia. Il gonfaloniere Pier Soderini lo incaricò immediatamente di affrescare un episodio della storia militare fiorentina su una parete della Sala del Gran o del Maggior Consiglio in Palazzo Vecchio, l’attuale Salone dei Cinquecento, per esaltare le virtù repubblicane della città: si trattava della “Battaglia di Anghiari”, avvenuta in prossimità di Arezzo il 29 giugno del 1440 tra fiorentini e milanesi. Mentre meditava sulla realizzazione dell’episodio, Leonardo si applicò ad un altro progetto affidatogli dalla Repubblica, e cioè l’incarico di deviare il corso dell’Arno al fine di privare Pisa della sua più importante risorsa idrica, e di dare vita ad un canale navigabile che collegasse Firenze al mare, ma per le evidenti difficoltà tecniche ed economiche l’impresa travalicava le sue forze ed egli non riuscì a venirne a capo.
Si concentrò allora sulla commissione per Palazzo Vecchio, e dopo aver allestito uno studio nella Cappella del papa di Santa Maria Novella iniziò a lavorare alacremente ai disegni per la composizione, focalizzando la sua attenzione sulla lotta ferina che coinvolge uomini e animali, nella zuffa furiosa che contrappone i cavalieri intenti a contendersi lo stendardo, in mezzo a nugoli di polvere e di terra. Di lì a poco il Soderini affidò un incarico simile a Michelangelo (che in quel periodo stava ultimando il David), a cui venne richiesto di affrescare nello stesso salone di Palazzo Vecchio la “Battaglia di Cascina”, avvenuta nei pressi di Pisa il 29 luglio del 1364 tra i fiorentini e i pisani, ma seppur per motivi differenti nessuno dei due fu in grado di condurre in porto la commissione, facendo naufragare una delle più celebri sfide artistiche di tutti i tempi.
Approntato il cartone, Leonardo, da sempre refrattario ad utilizzare la tecnica dell’affresco, recuperò dalla “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio l’antica ricetta dell’encausto (secondo la quale si utilizzava come legante per i pigmenti la cera d’api, e si stendeva poi l’impasto ottenuto dalla miscela, liquido e caldo, sul supporto prescelto) e in parte la modificò piegandola alle sue esigenze; dipinse dunque in questa maniera la scena della lotta per lo stendardo sulla superficie muraria e fece accendere il fuoco per permettere alla pittura di asciugarsi, ma a causa dell’altezza del dipinto il calore sprigionato dai bracieri non riuscì a raggiungere la parte superiore dell’opera, che continuò a rimanere bagnata e alla fine colò sulla parte inferiore rendendo tutto il lavoro irrecuperabile. Preso atto della gravità della situazione, malgrado le proteste della Signoria al termine di quell’anno Leonardo decise di gettare la spugna, sconfitto e umiliato da un fallimento così bruciante.
Quasi presago del naufragio dell’impresa, all’inizio del lavoro nel salone aveva registrato forse con preoccupazione lo scatenarsi di un terribile temporale abbattutosi su Firenze: “Addì 6 di giugno 1505, in venerdì, al tocco delle 13 ore (ovvero intorno alle 9 e mezzo del mattino, secondo il computo dell’epoca) cominciai a colorire in Palazzo, nel qual punto del posare il pennello si guastò il tempo, e sonò a banco richiedendo li omini a ragione (cioè suonò la campana del tribunale che annunciava l’apertura delle udienze, richiamandovi gli uomini interessati), e il cartone si stracciò, l’acqua si versò e ruppesi il vaso dell’acqua che si portava, e subito si guastò il tempo, e piovve insino a sera acqua grandissima, e stette il tempo come notte”.
La porzione di parete che conteneva la “Battaglia di Anghiari” oggi ospita la “Battaglia di Marciano” di Giorgio Vasari, che nella seconda metà del Cinquecento si occupò di decorare per intero la superficie muraria del vasto ambiente; non sappiamo se i resti del dipinto, gravemente deteriorati, furono completamente rimossi oppure semplicemente coperti. Qualche anno fa sono state tentate indagini di tipo diagnostico e piccoli saggi sulla parete, ma nessuno di essi è stato in grado di sciogliere il mistero. Il desiderio di provare a rintracciare i lacerti dell’opera è stato solleticato anche dalla presenza della scritta “CERCA TROVA” che si legge su una delle tante bandiere inserite nell’affresco del Vasari, che ha fatto ipotizzare ad alcuni studiosi che l’aretino avesse voluto lasciare un indizio per permettere ai posteri di rinvenire il dipinto leonardiano, ma altri in tempi più recenti l’hanno interpretata come una chiara allusione al verso dantesco “Libertà va cercando ch’è si cara”, tratto dalla seconda cantica della “Divina Commedia” (“Purgatorio” I, 71), che compariva sulle bandiere dei fiorentini antimedicei capeggiati da Bindo Altoviti, oppositore di Cosimo I (nell’affresco vasariano non a caso viene illustrata la battaglia ingaggiata tra le truppe del duca e quelle francesi a cui si erano uniti i fuoriusciti fiorentini, debellati insieme agli invasori transalpini).
Allo stato attuale possiamo farci un’idea parziale della “Battaglia di Anghiari” soltanto attraverso i disegni superstiti di Leonardo e le copie realizzate in seguito da altri pittori, come la cosiddetta “Tavola Doria”e la replica eseguita da Rubens. Anche il cartone non si è conservato, al pari di quello di Michelangelo: secondo la celebre definizione coniata da Benvenuto Cellini le due opere furono considerate la “scuola del mondo” e vennero studiate a lungo da diverse generazioni di artisti, per finire poi smembrate o letteralmente consumate da chi ebbe la possibilità di maneggiarle. Per la cronaca Michelangelo, che nella “Battaglia di Cascina” intendeva esaltare come suo solito la bellezza ma anche la potenza del corpo maschile, e per far ciò aveva deciso di raffigurare i soldati fiorentini che balzavano fuori dalle acque dell’Arno per correre a combattere il nemico, non potette mettere mano all’affresco perché venne chiamato a Roma da papa Giulio II, che gli assegnò l’incarico di realizzare il suo monumento funebre prima e di affrescare la volta della Cappella Sistina poi. (Continua – Barbara Prosperi)