Nell’anno dedicato al settecentenario della morte di Dante Alighieri, spentosi in esilio nella città di Ravenna nella notte fra il 13 e il 14 settembre del 1321, lo scrittore carmignanese Lorenzo Petracchi ha ricordato il legame che unisce il nostro territorio ad un personaggio della Divina Commedia, presente nei canti XXIV e XXV dell’Inferno. In prossimità del Dantedì, giornata istituita per celebrare la figura, la storia e l’opera del grande letterato fiorentino, che ricorre il 25 marzo, Lorenzo ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una leggenda che riguarda la località di Fuccioli, che secondo la voce popolare ha derivato il suo nome da quello di Vanni Fucci.
Costui fu un guelfo nero nativo della città di Pistoia, noto per la sua indole collerica e violenta, passato alla storia per le ruberie di cui si rese protagonista, che non a caso indussero l’Alighieri a collocarlo nella bolgia dei ladri. Il furto più grave realizzato da Fucci interessò la cattedrale di Pistoia, che il ribaldo saccheggiò insieme ad alcuni compagni depredando la sagrestia di oggetti preziosi come tavole d’argento, arredi e reliquie, durante il carnevale del 1293. Condannato in contumacia dal comune di Pistoia in qualità di omicida e predone, Vanni Fucci riparò nel contado e lì si dette al brigantaggio, ma tornò periodicamente a compiere diverse razzie all’interno della città, colpendo in maniera particolare l’opposta fazione dei guelfi bianchi.
Quando Dante lo incontra nell’oltretomba, Fucci gli si presenta descrivendosi con queste parole, che sottolineano la sua natura selvaggia, animalesca: “Io piovvi di Toscana, / poco tempo è, in questa gola fiera. / Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana”. Dopo aver confessato la sua colpa, ammettendo il furto sacrilego (“io fui / ladro a la sagrestia d’i belli arredi”), gli predice la futura sconfitta dei guelfi bianchi, cui l’Alighieri apparteneva. In quell’annuncio è racchiusa tutta la crudeltà del malfattore, che si compiace della sofferenza inferta al poeta, quando con soddisfazione dichiara: “E detto l’ho perché doler ti debbia!”. Poi, non pago, si rivolge a Dio in maniera ingiuriosa, prima di essere avvolto nelle spire di due grossi serpenti.
In base alla tradizione raccolta da Petracchi, che aveva già narrato la storia all’interno del libro Spettri e paure, leggende e visioni delle colline medicee, pubblicato nel 2013, Vanni Fucci dimorò per un certo periodo di tempo a Fuccioli, e compì delle scorribande anche nel territorio carmignanese in compagnia di alcuni complici originari del luogo. Stando ai racconti popolari, dopo il decesso le loro anime dannate iniziarono a tormentare i viandanti con apparizioni terrifiche e con la predizione di future disgrazie, così come aveva fatto Fucci con Dante, preannunciandogli la disfatta della sua fazione politica. A chi nelle ore notturne saliva da Poggio a Caiano verso Carmignano percorrendo via del Granaio, avvicinandosi alla fonte della Bellanda e alla zona di Torcicoda, poco sotto la collina di Montalbiolo, si manifestavano dunque questi spiriti malvagi con tutta la loro virulenza.
Anche se la loro presenza poteva assumere diverse fogge, agli spettatori terrorizzati di queste visioni apparivano perlopiù giganteschi serpenti che si avviluppavano in stretti grovigli, che spalancando le fauci e mostrando i denti acuminati sibilavano minacciosi in direzione degli astanti, lanciando loro agghiaccianti anatemi che li spingevano alla fuga e li turbavano nel profondo. “In quel luogo gli scontri si avvicendavano tragicamente con il sopraggiungere della notte – scrive Lorenzo nel suo racconto –. Acuti e prolungati fischi erano emessi da contorte masse informi da cui emergevano teste di mostruosi rettili. Nei pressi della fonte altre ombre assumevano configurazioni e sembianze sataniche dalle orripilanti ali di pipistrello, corna di caprone e zampe ungulate”.
“Un tortuoso infinito carosello di evanescenti mostri si estendeva per il declivio di Montalbiolo per un lungo tratto fino a toccare il millenario leccio – continua Petracchi con la sua prosa ricercata e ricca di fascino –. Da quel vigoroso albero, eredità dei nostri padri etruschi, le mostruosità della Bellanda scendevano ed emergevano dagli inferi, dal cosmo sotterraneo dei morti, dominato da altrettanto feroci esseri. Da quei drammatici misteri forse deriva il nome Bellanda (dal latino bellare, combattere, ma potrebbe anche derivare dal medievale longobardo, luogo di guerra). Arcano nome che richiama alla mente azioni guerresche e armi e sangue, così da non destare meraviglia se si percepivano in quel sito fragori diabolici”. (Barbara Prosperi)