Non avevo mai visto la festa di San Michele prima di quest’anno. Se mi guardo indietro, conservo solo qualche ricordo sbiadito di quando, da bambina, i miei genitori mi portavano a Carmignano a vedere la festa. Dal 1999 fino al 2019 ho soltanto ricordi da figurante. Quest’anno, dopo due anni di pandemia, torno a Carmignano in una veste da spettatrice. Non nego di avere provato un filo di nostalgia per quei metri di piazza di fronte alla fontana, per la tensione in quel tratto di discesa in via Modesti e per l’urlo di incoraggiamento prima della partenza del rione. Mi sono sentita come quei calciatori che, una volta appesi gli scarpini al chiodo, restano comunque a commentare la partita di calcio da bordo campo. Da questa nuova prospettiva racconto lo spettacolo che è andato in scena sabato 1 ottobre e che, forse per la prima volta, è iniziato puntualmente, tanta era la voglia di tornare in scena dopo due anni di stop forzato.
Tutto inizia come sempre: la sfilata del gonfalone, quindi il corteggio del gruppo storico di Carmignano. Poi è la volta del primo rione a scendere in piazza, il rione giallo, rione del Leone, con “Come lacrime nella pioggia”, per la regia di Matteo Cecchini. Il testo è denso, accattivante e tiene incollati a quello che vediamo in scena per tutta la durata della rappresentazione. La storia è quella di un carmignanese che abitava in via Novelli e che ha lasciato una lunga lettera al figlio Michele che non ha mai conosciuto, per raccontargli qualcosa di sé e di come si erano conosciuti lui e la madre. Ecco quindi che prende corpo la testimonianza di quest’uomo in un lungo flashback infarcito di citazioni cinematografiche pop (da Lo Squalo a Full Metal Jacket e da Star Wars a The Blues Brothers) e di colonne sonore anni Ottanta (tratte da Grease a Il tempo delle mele), sullo sfondo dei luoghi di Carmignano e dintorni, come il Galli, la Sportiva e il cinema Ambra di Poggio a Caiano. La narrazione segue tre diversi piani, quello del babbo, quello del figlio Michele e quello del narratore esterno che ha la funzione di voce della coscienza. Commovente il finale in cui il figlio incontra, forse immaginandolo, il padre ancora giovane con in sottofondo lo scroscio di una pioggia battente che lava il dolore ma non cancella il ricordo.
Secondo a sfilare il rione Verde, rione dell’Arte che ha portato in scena “Ali di polvere”, per la regia di Francesco Dendi. La vicenda si svolge a Bacchereto negli anni Ottanta, quando viene istituito il Premio nazionale di Poesia, e si intreccia con la storia personale della poetessa Alda Merini, che nel 1991 vinse il primo premio col componimento “Le madri”, rimasto dimenticato per oltre trenta anni. La narrazione è affidata ad un personaggio simbolico, la Poesia, che ci guida attraverso i principali avvenimenti della vita della Merini. Scrittrice fin da piccola ma molto solitaria, viene osteggiata dalla famiglia e poi dal primo marito Ettore Carniti che non riconoscono il suo talento per la poesia. La Merini non riesce a prendersi cura delle figlie, entra ed esce dall’ospedale psichiatrico, dove resta in “coercitiva punizione” per un periodo di dieci anni. Notevole la scena dell’ospedale psichiatrico che strizza l’occhio ad una precedente rappresentazione del rione dell’Arte, già vincitrice nel 2012. In questo contesto di malattia e di prigione la Merini incontra il pittore Pierre e poi il dottor G. che le regala una macchina da scrivere offrendole una possibilità di guarigione. La Poesia si riavvicina a lei insieme alla fiducia di poter donare i suoi componimenti al mondo, compreso quello de “Le madri” scolpito ad imperitura memoria sulla pietra nell’angolo della poesia a Bacchereto, dove dal 2021 è stato nuovamente istituito anche il Premio nazionale. La rappresentazione è ben recitata complessivamente e lancia un messaggio finale, quello di amare i poeti che hanno costruito altari e permesso di volare oltre la triste realtà quotidiana.
Il rione Celeste, rione dell’Arcangelo, terzo in ordine di sfilata, ha portato in scena “Uno nove quattro quattro” per la regia di Alessandro Fusco. Siamo nel 1944, in piena guerra mondiale. A Carmignano viene organizzato prima il sabotaggio dell’11 giugno, che termina in una grande esplosione bianca, e poi si verificano i fatti del 6 agosto, quando cinque civili innocenti vengono giustiziati ad Artimino dai nazisti. In scena i cinque martiri vengono avvolti in dei drappi grigi e rievocati attraverso cinque fotografie in bianco e nero. La rappresentazione dei fatti (già raccontati in una sfilata del 2006) è essenziale e suddivisa in tanti quadri di arte contemporanea, con pochi colori minimali, il bianco sporcato di nero dei rifugiati, il grigio dei soldati e il rosso del sangue. I movimenti sono robotici e le musiche metalliche a ricordare un’Umanità (rappresentata da una dama vestita di rosso), che è stata spogliata dei suoi abiti dalle mani di sarti esperti e spietati. Il reportage di guerra, sintetico, lucido e cinico, potrebbe essere quello di una guerra qualsiasi (e qui il rimando alla situazione attuale in Ucraina è inevitabile), in cui i rifugiati hanno perso la loro identità ed i soldati hanno smesso di guardare, di ascoltare e di parlare. Sul finale, fortemente evocativo, la guerra raccontata attraverso gli occhi di un bambino che incontra se stesso da adulto, resta alle spalle come quel buio da cui improvvisamente torna la luce. Così, tutti, possiamo tornare a sperare, a vestirci con abiti a fiori e a ballare sulle note de La vie en rose.
Ultimo a sfilare il rione Bianco, rione della Torre, che con un esperimento audace porta in scena “Un tenue filo di luce” per la regia di Lorenzo Tarocchi, il racconto di un amore impossibile ambientato nel 1773, in regime di mezzadria, con un testo molto complesso basato sui versi in ottava rima del cantore Florio Londi, originario di Santa Cristina a Mezzana e grande conoscitore della poesia dantesca e dei poemi cavallereschi.
I principali componimenti del Londi che impreziosiscono il testo sono tratti dalle raccolte Canto brado, La vergine rima e L’età che non ebbi l’età che non amai, da cui è preso il pezzo finale Quale la ragione.
L’amore impossibile, narrato sulla falsa riga del Romeo e Giulietta di William Shakespeare, è quello tra un umile mezzadro ed una giovane nobile. Dopo essersi conosciuti ad un ballo in maschera (qui spiccano i tessuti degli abiti sgargianti dei personaggi in scena), i govani amanti si sposano in segreto e il loro matrimonio scatena una faida tra mezzadri e nobili signori, che finisce nel sangue. Il dramma dei due giovani amanti si lega anche al tema mitologico di Crono, dio del Tempo, e di Rea, dea della fertilità. Entrambi i personaggi salgono sul gigantesco carro finale, dove sono presenti delle clessidre. L’ordine nella storia, dopo l’assassinio di un mezzadro e di un nobile, viene ristabilito dal Granduca Pietro Leopoldo, che nel 1786 abolisce la pena di morte e impedisce così la pena capitale ai due protagonisti.
Al termine delle rappresentazioni dei quattro rioni è stato disputato il primo Palio dei ciuchi, vinto da Thomas Bresciani del rione Celeste, secondo Lorenzo Cappellini del rione Giallo e terzo Andrea Boccafoschi del rione Verde. Non classificato Francesco Risaliti del rione Bianco, il cui ciuco è arrivato da solo al traguardo. (Valentina Cirri)