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Nel 1518 Leone X decise di riprendere la decorazione della villa medicea di Poggio a Caiano, i cui lavori erano rimasti interrotti alla morte di Lorenzo il Magnifico (8 Aprile 1492). Edificata nel nono decennio del XV secolo su progetto di Giuliano da Sangallo, essa era stata concepita da Lorenzo come luogo di svago ove ritemprarsi dalle fatiche del lavoro e della politica; il programma figurativo, ideato dallo stesso Magnifico in collaborazione con Angelo Poliziano, era imperniato sull’esaltazione della vita di campagna e al momento della scomparsa di Lorenzo restò in gran parte incompiuto.
A un quarto di secolo dalla morte del padre, il pontefice si risolse dunque a completarne l’opera, e per dare corpo all’ambizioso progetto convocò tre dei più rinomati maestri di Firenze: Pontormo appunto, Andrea del Sarto e il Franciabigio (che di Andrea era il socio). Mentre a questi ultimi furono affidate le pareti lunghe della grande sala centrale, a Jacopo vennero assegnate le lunette poste sui lati corti; Andrea e il Franciabigio eseguirono due episodi desunti dalla Storia romana (che, secondo il nuovo programma messo a punto da Paolo Giovio, andavano intesi come allegorie della gloria medicea), Pontormo invece – ricollegandosi direttamente al pensiero del Magnifico – illustrò il mito di “Vertumno e Pomona”, divinità agresti di origine etrusca che gli antichi consideravano custodi della fertilità, preposti al ciclico alternarsi delle stagioni e quindi al continuo rigenerarsi della vita.
L’affresco, realizzato tra il 1519 e il 1521, costituisce una delle prove più felici del Carrucci e presenta una spontaneità creativa, una freschezza compositiva e una facilità esecutiva destinate a non ripetersi più nella travagliata esistenza dell’artista. Prima che questi potesse mettere mano alla seconda lunetta, la scomparsa improvvisa di papa Leone (avvenuta il 1° Dicembre 1521) arrestò per la seconda volta la decorazione della villa.
Tra il 1522 e il 1523 si abbatté su Firenze un’epidemia di peste e molti degli abitanti cercarono scampo nelle campagne circostanti la città; Pontormo si rifugiò nella Certosa del Galluzzo insieme al fedele Bronzino, allievo ed intimo amico che gli fu accanto per tutta la vita. Nella quiete e nel silenzio del convento il pittore trovò un’atmosfera particolarmente congeniale per la meditazione spirituale e l’ispirazione artistica, e in breve tempo dipinse per i frati della Certosa cinque scene tratte dalla “Passione di Cristo”.
I suggestivi affreschi, realizzati a partire dal 1523, allo stato attuale fortemente rovinati dalla lunga esposizione agli agenti atmosferici, si ispiravano alle incisioni del maestro tedesco Albrecht Durer e furono aspramente criticati dal Vasari, che con il suo giudizio negativo influenzò pesantemente gli storici dell’arte dei secoli a venire. Jacopo rimase legato alla comunità monastica del Galluzzo per diversi anni, come testimoniano la “Cena in Emmaus” dipinta per i frati nel 1525 e una lunga sequenza di pagamenti ricevuti tra il 1525 e il 1527.
Dal 1525 al 1528 Pontormo si dedicò alla decorazione della Cappella Capponi nella chiesa fiorentina di Santa Felicita. La cappella, eretta tra il 1419 e il 1423 su disegno di Filippo Brunelleschi, in origine era appartenuta alla famiglia dei Barbadori ed era stata dedicata a Maria Santissima Annunziata; nel 1525 venne acquisita da Ludovico Capponi, che la riconsacrò alla Pietà e la destinò ad accogliere i sepolcri della propria famiglia.
Jacopo vi rimase recluso per quasi tre anni, lavorando alacremente con l’aiuto del solo Bronzino e sottraendosi allo sguardo dei curiosi dietro un’alta palizzata fatta innalzare per l’occasione. L’impegnativo programma iconografico, incentrato sul tema della Salvezza che passa attraverso il sacrificio di Cristo, trova il suo culmine nella toccante “Deposizione” posta sopra l’altare, uno dei vertici assoluti raggiunti dall’arte pontormesca.
Agli anni immediatamente successivi ai dipinti della Cappella Capponi, e cioè tra il 1528 e il 1530, viene solitamente attribuita la splendida “Visitazione” di Carmignano, stranamente ignorata dal Vasari, che resta a tutt’oggi una delle opere più misteriose e affascinanti dell’artista; alcuni critici tuttavia non concordano con tale datazione e sono propensi a spostare la collocazione cronologica della tavola in un periodo compreso tra il 1536 e il 1538.
Nel 1529 Jacopo acquistò un appezzamento di terreno situato tra via della Colonna e via Laura e vi fece costruire la propria abitazione; come emerge dalle “Vite” del Vasari e dal “Diario” dello stesso Pontormo, ad essa si accedeva mediante una scala che il pittore era solito ritrarre per non essere disturbato quando era di cattivo umore o si trovava immerso nel lavoro. Questo particolare, su cui Vasari ha molto insistito nella biografia dedicata a Jacopo, ha certamente alimentato la fama di uomo eccentrico, ombroso, misantropo, che da sempre si accompagna al nome dell’artista e che spesso è stata esageratamente accentuata dai suoi detrattori.
All’inizio degli anni Trenta, mentre era impegnato nella realizzazione delle Tombe Medicee, Michelangelo affidò a Pontormo l’esecuzione di due quadri (un “Noli me tangere” e una “Venere e Amore”) che gli erano stati commissionati da dei privati; sulla scorta dei cartoni forniti dal Buonarroti, Jacopo dipinse due tavole di straordinaria bellezza, che suscitarono l’entusiastica ammirazione sia di Michelangelo che di quanti ebbero modo di vederle.
Nel 1531 papa Clemente VII (al secolo Giulio de’ Medici, cugino di Leone X, insediatosi sulla Cattedra di Pietro il 19 Novembre 1523) incaricò Pontormo di ultimare la decorazione della villa di Poggio a Caiano; l’artista approntò una nutrita schiera di disegni, fece montare i ponteggi ed elevare uno steccato, ma perdendosi in un vortice di divagazioni e di ripensamenti sprecò quasi due anni di tempo senza porre mano agli affreschi; in ultimo la morte del pontefice (verificatasi il 25 Settembre 1534) mise fine per la terza volta ai lavori di abbellimento dell’edificio.
Nella biografia di Jacopo il Vasari parla in più di un’occasione del dispersivo metodo di lavoro del pittore, delle insoddisfazioni e delle inquietudini che lo assalivano durante il processo creativo, sottolineando “la bizzarra stravaganza di quel cervello”, che “di niuna (sic) cosa si contentava giamai (sic)” e “andava sempre investigando nuovi concetti e stravaganti modi di fare, non si contentando e non si fermando in alcuno”, a tal punto che “guastando e rifacendo oggi quello che avea fatto ieri si travagliava di maniera il cervello che era una compassione”.
Malgrado ciò, nel 1535 Alessandro de’ Medici gli diede l’incarico di affrescare le logge della villa di Careggi; questa volta Jacopo si mise subito al lavoro, tanto che il 13 Dicembre 1536 era già riuscito a terminare la prima loggia; tuttavia il progetto rimase incompiuto a causa dell’uccisione del duca, che cadde sotto i colpi di daga del cugino Lorenzo nella notte tra il 5 e il 6 Gennaio 1537. La particolare tecnica impiegata da Pontormo, che sull’intonaco fresco adoperò i colori ad olio anziché la tempera, provocò il precoce deterioramento delle pitture, di cui oggi non resta più alcuna traccia.
Il 9 Gennaio 1537 salì al potere Cosimo I de’ Medici, che in quello stesso anno affidò al Carrucci il compito di decorare le logge della villa di Castello; anche in questo caso il maestro si applicò immediatamente alla preparazione degli affreschi, che lo tennero occupato per circa cinque anni e che purtroppo, a causa dell’analoga tecnica impiegata, subirono la stessa sorte di quelli di Careggi.
Nel 1545 il granduca incaricò l’artista di approntare una serie di disegni con scene tratte dalle “Storie di Giuseppe”, e questo al fine di realizzare una dozzina di arazzi destinati ad ornare le pareti della Sala de’ Dugento in Palazzo Vecchio; Jacopo presentò due cartoni che però non incontrarono il gradimento del Medici, il quale assegnò pertanto al Bronzino il compito di portare a termine la commissione.
Nonostante questo episodio, l’anno seguente Cosimo commissionò a Pontormo la decorazione del coro di San Lorenzo, impresa che assorbì l’artista per il resto dei suoi giorni. Nelle intenzioni del granduca il ciclo figurativo avrebbe dovuto rivaleggiare con il “Giudizio Universale” della Cappella Sistina, ed eguagliare l’affresco del Buonarroti per importanza, imponenza e bellezza. Jacopo accettò la commissione di slancio, esaltato e al tempo stesso spaventato dalla vastità dell’incarico e dal confronto con Michelangelo.
Allestita la consueta palizzata, egli si divise per oltre dieci anni tra lo studio e la chiesa, lavorando in maniera esclusiva ed estenuante sul colossale progetto. Il temuto paragone con il Buonarroti, la continua ricerca di inedite soluzioni formali, l’impegno fisico e mentale richiesto dalla pittura a fresco finirono per gettare Pontormo in un abisso di malesseri, ansie ed angosce dai quali non riuscì più ad affrancarsi. Dalle pagine del “Diario” che egli scrisse dal Gennaio 1554 all’Ottobre 1556 affiora in effetti l’immagine di un individuo fortemente disturbato, stanco, depresso, gravato dal peso degli anni e dalle tribolazioni. Il profondo strato di prostrazione in cui si trovava il pittore si riversò inevitabilmente sui dipinti di San Lorenzo, densamente popolati da un’umanità dolente e disperata.
Il tema portante del ciclo pittorico verteva sui concetti di Peccato e Redenzione, opportunamente visualizzati attraverso la rappresentazione di episodi tratti dal libro della “Genesi” e da quello dell'”Apocalisse”; la scena che colpì maggiormente i contemporanei fu sicuramente quella del “Diluvio Universale”: in essa era raffigurata una moltitudine di cadaveri dai corpi abbandonati, lividi, gonfi d’acqua, che si ammassavano disordinatamente uno sull’altro dando vita a viluppi inestricabili di membra disarticolate e scomposte.
Consunto dagli affanni e dalle preoccupazioni, Jacopo si spense il 31 Dicembre 1556 o il 1° Gennaio 1557 senza riuscire a terminare il lavoro. Il 2 Gennaio vennero celebrati i funerali nella chiesa di San Lorenzo, dove l’artista fu sepolto. Nel 1562 i suoi resti vennero traslati alla Santissima Annunziata, dove si trovano tuttora. Gli affreschi furono ultimati dal Bronzino e inaugurati il 23 Luglio 1558. Tacciati di eresia e incompresi dai più, vennero distrutti nel Settecento durante i lavori di ristrutturazione della basilica.
Per gentile concessione di Barbara Prosperi (articolo pubblicato su “Metropoli” il 28 Febbraio 2014)