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Storie e leggende carmignanesi
Ai visitatori che entrano oggi nella Rocca di Carmignano, aperta nelle notti d’estate per ospitare i concerti musicali del “Festival delle colline”, gli spettacoli teatrali di “Carmignano
estate” e la rassegna enogastronomica di “Calici di stelle”, i resti dell’antica struttura ispirano di norma sentimenti di pace, tranquillità e serenità, grazie anche alla presenza di una fitta vegetazione che porta fresco e ristoro dalla calura e alla posizione elevata checonsente di godere di un panorama straordinario. Eppure in passato la Rocca, considerata un avamposto fondamentale per controllare il flusso degli eserciti che transitavano da e verso l’Appennino settentrionale e l’Italia del nord, fu a lungo contesa tra fiorentini, pratesi e pistoiesi, e divenne teatro di sanguinose battaglie ed efferati episodi legati alla crudeltà e alla sopraffazione che da sempre si accompagnano alle guerre.
Nel 1325 la roccaforte fu espugnata per conto della città di Pistoia dal condottiero
Castruccio Castracani, signore di Lucca noto per la ferocia e la tirannia senza pari. A
questo episodio è collegato un racconto che il carmignanese Lorenzo Petracchi ha
riportato nel libro “Spettri e paure, leggende e visioni delle colline medicee”, pubblicato
nel 2013 dopo un lungo lavoro di ricerca e di cesello.
La storia è di quelle che inquietano, e può essere inserita senz’altro nel novero di quelle
che un tempo venivano chiamate “paure”, ovverosia racconti ammantati di fantastico, di
mistero, di orrore connessi a luoghi, fatti o persone legati in qualche modo alla parte più
oscura della storia di una comunità.
Una volta questi racconti venivano narrati a voce durante le lunghe veglie serali che si
tenevano prevalentemente nelle case coloniche, quando ancora non esisteva la televisione e la gente ingannava il tempo raccontando storie, declamando poesie, improvvisando versi in ottava rima, creando così un piacevole sbocco per la propria creatività e la propria fantasia.
Riallacciandosi a questa tradizione, Lorenzo Petracchi riferisce che, quando i soldati
pistoiesi arrivarono in prossimità della Rocca di Carmignano, le donne che abitavano nel
castello cercarono riparo nella vecchia pieve di San Michele e non, come erroneamente
indicato, in quella di San Jacopo , che prima di essere trasferita nella chiesa francescana
sorgeva dove è attualmente situata una splendida casa colonica recentemente restaurata.
Una ragazza era rimasta staccata dal gruppo, probabilmente rallentata dal fardello del
bambino che portava in braccio. Un cavaliere le si avvicinò al galoppo e la colpì alle
spalle, scagliandole una lancia che le si conficcò nella schiena. La giovane cadde a terra
vicino al pozzo della chiesa, reggendo tra le braccia il figlio che non voleva abbandonare alla violenza dei soldati. Le altre donne, paralizzate dal terrore, non ebbero il coraggio di uscire dalla pieve per soccorrere la sventurata, e nemmeno gli arcieri appostati sulle mura più alte del fortilizio ebbero l’ardire di tentare una sortita.
La ragazza venne immediatamente avvicinata dal cavaliere, che recuperò la lancia
estraendola dalla schiena della donna e subito dopo trafisse il piccolo, separandolo a forza dall’abbraccio della madre ormai agonizzante. Questa lanciò un grido pieno d’angoscia alla vista dell’accaduto, ma non poté fare altro che assistere impotente a tale strazio, perché le forze la stavano ormai abbandonando.
Il soldato alzò la lancia al cielo come un trofeo, la allungò verso la corona del pozzo, e dando un forte strappo precipitò il bambino dentro il vuoto. Quando si udì il tonfo del piccolo corpo caduto nell’acqua, la giovane gridò nuovamente e poi spirò.D alle profondità del pozzo si levò la voce del bambino che invano invocava la mamma, e di lì a poco una sagoma evanescente fu vista alzarsi in volo. Era lo spirito della donna, che iniziò a volteggiare senza posa sopra il pozzo. La luna, piena, aveva appena sfiorato il crinale della collina su cui si innalzava il castello. Mentre la madre, scossa dai singhiozzi, chiamava il figlio, quest’ultimo implorava il suo aiuto con voce sempre più flebile. Poi su tutto prevalse il silenzio, rotto solamente dallo scalpitare dei cavalli.
Dalla punta della lancia un rivolo di sangue scese lungo l’asta ad arrossare la mano del
soldato. Malgrado i suoi ripetuti tentativi, egli non riuscì a nettare la pelle da quella
macchia, che per il resto dei suoi giorni rimase come un marchio indelebile a ricordargli il suo tremendo misfatto.
Qualcuno afferma che ancora oggi, nelle notti di luna piena, nelle vicinanze del luogo in
cui sorgeva la vecchia pieve di San Jacopo, si possono ascoltare i lamenti disperati del
piccolo Duccio che invoca l’aiuto della mamma. (Barbara Prosperi)