La peste e la Spagnola a Carmignano
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- Un viaggio tra oratori
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Il Lazzaretto ai Renacci
Anche considerando la possibilità che le testimonianze orali possano alterare alcuni dettagli dei fatti riportati (e allo stesso modo cancellarne altri o aggiungerne di nuovi), esse mantengono sempre un fondo di verità, e in mancanza di documenti scritti restano tra le poche fonti disponibili per acquisire elementi dal passato e ricostruire o integrare la storia dei tempi andati, sui quali lo scorrere degli anni e dei secoli ha progressivamente steso il manto dell’oblio. Grazie ad alcuni racconti pazientemente raccolti e trascritti dalla carmignanese Marisa Bocci, che ha conservato le informazioni ricevute dalle zie Carolina Orlandi e Giulia Londi, abbiamo scoperto – e pertanto deciso di pubblicare – delle notizie preziose sulla peste che colpì l’Europa fra il 1629 e il 1631 e sull’influenza spagnola che si abbatté su buona parte del globo fra il 1918 e il 1920, due epidemie che toccarono anche il nostro territorio, e di cui in parte abbiamo già parlato nei mesi scorsi. Allora come oggi la popolazione mondiale era flagellata da dei microrganismi contro i quali le armi più efficaci erano e sono tuttora il distanziamento sociale e l’isolamento, le uniche misure veramente in grado di evitare il propagarsi del contagio, dato che all’epoca la medicina non disponeva ancora delle conoscenze, dei mezzi di indagine e delle cure farmacologiche che esistono adesso.
Nel XVII secolo la famosa peste bubbonica, resa immortale dal Manzoni grazie a “I promessi sposi” e la “Storia della colonna infame”, giunse anche a Carmignano, importata probabilmente dai centri urbani attraverso un duplice binario di infezione, ovvero mediante alcune famiglie fiorentine che si trasferivano nelle residenze di campagna presenti nella zona e dei braccianti che arrivavano da Prato passando lungo la piana di Tavola (questa ultima ipotesi in particolare trova un riscontro puntuale anche nelle “Memorie storiche del comune e castello di Carmignano”, dove alla fine dell’Ottocento il marchese Antonio Ricci ripercorse la storia del nostro territorio dal tempo dei romani alla seconda metà del XIX secolo, riferendo che all’epoca il podestà Iacopo Bardi aveva dato ordine che fosse chiuso il ponte a Tigliano), e contagiò talmente tante persone che come anche altrove si rese necessaria la creazione di un lazzaretto dove ricoverare i malati più gravi, ricavato in un gruppo di edifici situati ancora oggi in località Renacci, in quella che attualmente viene indicata come “la corte”, e che allora prese il nome de “il girone infernale”, poco lontano da quello che adesso è l’abitato principale del paese, all’inizio della via Pistoiese che dal capoluogo conduce nella frazione di Seano.
Una coppia di uomini incappucciati prelevava i contagiati dalle abitazioni, li caricava su un carro trainato da un cavallo e li portava nei locali adibiti a ricovero, sprangando le imposte dal di fuori affinché oltre ai malati da lì non potesse né entrare né uscire aria, perché si temeva che con il loro respiro gli infetti fossero in grado di contaminare non soltanto quella interna ma anche quella esterna. Una volta al giorno le persone incaricate del servizio di assistenza passavano a bussare alle porte con un bastone, e a chi rispondeva lasciavano dell’acqua e del pane, deposti in una ciotola che veniva fatta passare sotto un pertugio aperto nella parte inferiore della porta, dopodiché si allontanavano incuranti delle urla e dei lamenti che si levavano dalle bocche degli appestati, tormentati dalla febbre e dai dolori. I racconti tramandati dai testimoni di quel tempo, arrivati fino al nonno di Carolina e da questo trasmessi alla nipote, descrivevano gli effetti che il batterio della peste produceva sul corpo dei malati, provocando la formazione di ascessi sotto le ascelle, lo scurimento e il raggrinzimento della pelle e l’emissione di vomito e bava dalla bocca. Le loro grida raggiungevano talvolta la piazza del paese, e solo quando queste cessavano e nessuno rispondeva più ai richiami provenienti dall’esterno venivano aperte le porte e si procedeva alla sepoltura dei cadaveri, che venivano presumibilmente tumulati in fosse comuni lontane dall’abitato. Nelle case rimaste vuote venivano dati alle fiamme materassi, lenzuola, coperte, cuscini e vestiti, e in alcuni casi venivano utilizzati anche dei caldani pieni di zolfo per disinfettare le stanze.
Quasi tre secoli più tardi proprio il nonno di Carolina, Bartolomeo, si trovò a dover sperimentare sulla propria pelle e su quella dei propri familiari un’esperienza analoga provocata da una nuova pandemia, quella della cosiddetta influenza spagnola, causata da un virus che si propagò velocemente attraverso gli spostamenti dei militari impegnati nel primo conflitto mondiale, i quali si trovavano a dover dividere spesso spazi angusti ed affollati all’interno delle trincee e degli ospedali. Molti soldati tornando a casa dalla guerra portarono il contagio in famiglia, infettando i propri cari già duramente provati da una situazione che soprattutto dal punto di vista alimentare si presentava alquanto precaria. La chiamata alle armi degli uomini infatti aveva in gran parte spopolato le campagne, rendendo i poderi improduttivi e costringendo tante famiglie a misurarsi in breve tempo con la penuria di cibo e la malnutrizione. Vitto scarso, abitazioni spesso prive di fonti di riscaldamento e condizioni igieniche inadeguate esposero un gran numero di persone non soltanto al contagio del virus, ma anche al rischio di complicazioni potenzialmente letali, tant’è vero che le vittime di questa influenza furono numerose anche nelle zone rurali, solitamente meno esposte a questo tipo di epidemie.
Bartolomeo fu il primo nella famiglia a contrarre la spagnola, e appena gli furono riconosciuti i sintomi della malattia venne isolato in una stanza diversa da quella in cui dormiva con i nipoti; sviluppò rapidamente una grave forma di polmonite, e i familiari che lo assistevano cercavano di tenerlo al caldo con un braciere pieno di carboni accesi e mediante l’applicazione sul corpo di mattoni o coperchi di pentole arroventati ed avvolti nella stoffa. Nonostante queste cure, l’uomo non riuscì a superare l’influenza, e oltre a lui morirono tre dei nipoti che avevano diviso la camera con il nonno; questi bambini furono tra i tanti piccoli falcidiati dalla pandemia, a cui a quel tempo era dedicato un quadro del cimitero di Carmignano, denominato “degli angiolini”. La popolazione, giunta al culmine della disperazione, a un certo punto si rivolse al parroco affinché scoprisse la Madonna delle grazie e la pregasse di far cessare l’epidemia. L’immagine in questione è custodita nella chiesa di Carmignano, sul secondo altare di sinistra, di fronte alla “Visitazione” del Pontormo, inserita nella parte superiore di una tela che raffigura i santi Giovanni Evangelista, Francesco, Macario e Andrea; ritagliata probabilmente da un quadro di maggiori dimensioni, l’opera rappresenta l’“Annunciazione” e secondo una lunga tradizione possiede virtù miracolose. Fino alla metà del secolo scorso era coperta da una tenda rossa ornata di giallo e veniva mostrata ai fedeli ed invocata solamente nei momenti di pericolo, che potevano riguardare sia il popolo che le singole persone.
Carolina, che all’epoca in cui contrasse la spagnola aveva diciotto anni, guarì dalla malattia, ma continuò a ricordare quella terribile esperienza fino agli ultimi anni della sua lunga vita e ne parlò ripetutamente con la nipote Marisa, cui andava spesso a fare visita. Oltre a lei si ammalò un’altra zia di Marisa, Giulia, che come Carolina rimase contagiata all’età di diciotto anni, e venne isolata dal resto della famiglia in una stanza che si affacciava sulla strada che porta al cimitero comunale. Da adulta Giulia raccontava alle figlie Mirella e Vittoria che nel silenzio della notte sentiva passare i volontari della Misericordia, che con le teste coperte dai cappucci neri portavano su delle semplici barelle i morti di spagnola al camposanto; dalla sgretola della finestra la giovane vedeva i bagliori delle torce riflessi sul soffitto della stanza buia e rabbrividiva di paura temendo che a breve anche lei avrebbe potuto fare quella stessa fine. Anche se la sua esperienza si risolse positivamente, la donna non poté mai dimenticare quei drammatici momenti, e negli anni tornava a narrare il proprio vissuto alle figlie; fra i vari particolari Vittoria ancora oggi rammenta che la mamma le aveva riferito di aver perso tanti capelli oltre alle forze nel periodo della malattia, un dettaglio che sembra avere delle stringenti analogie con il coronavirus individuato nel 2019.
“Questi racconti che ho scritto sono scaturiti dalla polvere dei secoli – annota Marisa Bocci nel suo memoriale –. Tanti anni fa quando me li narrarono avevo avuto l’impressione che non ci appartenessero e che fossero storie di altri tempi. Ma ho constatato che hanno tante similitudini con quello che stiamo vivendo oggi nel 2020. Forse pensavamo di essere immuni da queste tragedie ma non è così. Tante volte la storia si ripete, e anche se noi oggi con le nuove tecnologie abbiamo potuto capire cosa è successo, come nel passato ci siamo trovati impreparati per affrontare questa sfida. Come nel passato l’unica arma che abbiamo avuto per proteggerci è stata quella di chiudersi in casa, come avevano fatto gli uomini e le donne di un tempo. Non credevo mai di poter vivere ancora oggi le storie raccontate dai nonni e ora mi rendo conto delle sofferenze che dovettero affrontare. In passato questi avvenimenti sembravano solo leggende popolari, pensavamo che non ci riguardassero, invece credo che questi racconti meritino di essere tramandati e ricordati. Dal momento che è grazie alle testimonianze delle persone che sono sopravvissute agli eventi che i fatti del passato possono arrivare fino a noi – conclude Marisa –, ho sentito il dovere di raccontare queste storie antiche”. (Barbara Prosperi)