Secondo quanto anticipato alla vigilia della presentazione del libro dedicato a Curzio Malaparte (vedi “Un libro su Curzio Malaparte” di Barbara Prosperi), durante l’iniziativa il professor Walter Bernardi ha raccontato un gustoso aneddoto che lega la figura dello scrittore pratese a quella di Leonardo da Vinci, di cui quest’anno ricorre il cinquecentenario della morte e le cui origini si perdono nel piccolo borgo di Bacchereto. La curiosità riguarda il celebre schizzo della bicicletta conservato nel Codice Atlantico, la poderosa raccolta che contiene la più ampia collezione di fogli leonardiani, custodito da lungo tempo nella Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Il disegno è chiaramente un falso, dovuto alla mano inesperta di un autore contemporaneo, ma per alcuni anni ha impegnato gli storici dell’arte in accese discussioni sulla sua reale autografia. Lo schizzo venne rinvenuto sul retro di una pagina durante il restauro del codice avvenuto negli anni Sessanta del secolo scorso, e fin dall’inizio spaccò il mondo accademico, diviso tra quanti ritenevano che fosse una falsificazione e quanti invece ipotizzavano che si trattasse di una copia di un originale andato perduto, eseguita da un allievo scarsamente dotato. Alla fine tutti i dubbi furono fugati dall’analisi scientifica del disegno, che rivelò in maniera inequivocabile l’utilizzo di un inchiostro novecentesco.
Considerata la genialità di Leonardo, ad alcuni era sembrato plausibile che egli avesse potuto inventare la bicicletta, ma altri si erano dimostrati irremovibili nel negare fermamente questa ipotesi. Lo schizzo infatti mostra una bicicletta con trasmissione a catena, troppo lontana dai primi modelli dei velocipedi e perciò troppo perfetta, impossibile da concepire nella sua compiutezza anche da una mente eccezionale come quella del pittore di Vinci, che avrebbe saltato in un solo colpo anni ed anni di reiterati tentativi effettuati nell’Ottocento. Da ultimo si optò per identificarne l’autore in uno dei monaci basiliani dell’abbazia di Santa Maria a Grottaferrata, che tra il 1966 e il 1969 si occuparono della ricomposizione e del restauro del Codice Atlantico.
E’ in questo momento che entra in scena Curzio Malaparte. L’intellettuale toscano era un grande appassionato di ciclismo, amava andare in bicicletta, e nel 1949 scrisse anche un libro sull’argomento, “Coppi e Bartali, i due volti dell’Italia”, dedicandolo a due dei più straordinari campioni delle due ruote di tutti i tempi. Nel volume Malaparte tra le altre cose descrisse la forte delusione lo aveva assalito quando, nel corso di un viaggio in Inghilterra, aveva scoperto nella città di Leeds un monumento intitolato a James Starley, l’inventore della bicicletta moderna.
“Com’è possibile che questo gioiello dell’intelligenza sia parto di un inglese e non di un italiano?”, si era chiesto lo scrittore pratese in preda allo sconforto, e aveva proseguito confessando che non riusciva ad accettare che non fosse stata inventata “da Botticelli, Michelangelo o Raffaello”. A questo punto viene da domandarsi se uno dei monaci di Grottaferrata non avesse letto il libro di Malaparte e, trovandosi tra le mani le carte di Leonardo, non avesse preso spunto da quella riflessione per cercare di attribuire ad uno dei più grandi artisti del nostro Paese la paternità dell’invenzione della bicicletta.
A onor del vero bisogna precisare che “Coppi e Bartali” è stato pubblicato sotto forma di volume soltanto nel 2009, e che in un primo momento uscì semplicemente all’interno di un settimanale, ma ciò non toglie che non potesse comunque essere arrivato all’autore dello schizzo, fornendogli l’ispirazione per architettare la beffa della bicicletta. Fu dunque Curzio Malaparte a creare il presupposto per una delle burle meglio riuscite del XX secolo? Dare una risposta è difficile, ma facile lasciarsi prendere dal dubbio che in questa storia ci sia davvero l’involontario coinvolgimento del famoso “maledetto toscano”. (Barbara Prosperi)