“Quinto Martini era il più bello dei suoi fratelli, aveva gli occhi grigi ed un fascino particolare che gli valeva l’ammirazione di molte studentesse che frequentavano il corso di scultura all’Accademia di Belli Arti di Firenze. Avevo un bel rapporto con lui, col tempo ho capito che lo zio mi raccontava soltanto quello che voleva fosse raccontato di lui”. Stefania Martini, che ci ospita nella sua casa vicina al Parco Museo di Seano dedicato appunto a Quinto, riporta a galla il ricordo dell’artista seanese che ha celebrato la normalità in pittura e in scultura.
Quinto Martini nasce il 31 ottobre 1908 a Seano in una famiglia numerosa durante un giorno di pioggia. “La famiglia Martini era composta da cinque figli, Quinto era l’ultimo e da questo infatti deriva il nome di Quintilio, – dice Stefania – vivevano tutti in una casa molto grande collocata su un piccolo podere di proprietà nella zona che ancora oggi viene chiamata la Palazzina”.
Fin da ragazzo Quinto ha lavorato la terra per aiutare la famiglia, ma al lavoro dei campi alternava nel tempo libero quello di “sporcare con carbone e colori i muri della casa e le pareti della camera, modellando figurine, cavalli e intere battaglie”. Vicino alla casa dei Martini c’era anche una piccola fornace, Quinto faceva delle passeggiate a piedi fino alla piazza di Tizzana dove c’era un’opera d’arte, prendeva l’ispirazione e dopo essere tornato a casa recuperava un po’ di creta e si dedicava ad “impastar mota”.
“Mio padre Aldobrando che era una mente matematica – racconta Stefania – , si accorse immediatamente che il fratello minore era uno spirito nato all’arte e lo accompagnò un giorno a Poggio a Caiano per conoscere Ardengo Soffici. Io stessa ho accompagnato Quinto da Soffici perché lo zio non aveva la patente. Soffici era già un adulto e una guida per Quinto, molto colto e gentile, gli mostrava le stampe e lo faceva appassionare all’arte di Cézanne e di Picasso”.
Il rapporto tra Soffici e Martini era di amicizia e di stima reciproca, ognuno dei due era un ospite gradito in casa dell’altro: Quinto infatti riconosceva la natura e Soffici come i suoi unici maestri.
Soffici a sua volta parlava di Quinto come di un seme che collocato in un terreno propizio aveva continuato a crescere: “quando andai da lui nelle stanze contadine sul cimitero del borgo, vidi tentativi di ritratti e un bambinello dormiente in mota ciglia, Quinto muoveva i primi passi sulla strada della sincerità”.
Grazie a Soffici Quinto viene introdotto nei circoli intellettuali pratesi che gravitavano intorno alla rivista “Il Selvaggio”, dove debuttò durante una mostra con un’opera scelta dal maestro poggese. Nei due anni dal 1928 al 1929 trascorsi a Torino per il periodo di leva Quinto conobbe Carlo Levi.
“Se Soffici era il maestro, Carlo Levi rappresentò un amico fidato – ricorda Stefania -. Quando Carlo morì Quinto gli fece recapitare un telegramma su cui c’era scritto ‘Addio Carlo, Quinto.’ Andò a fargli visita nel cimitero di Aliano dove era sepolto e dopo alcuni mesi i paesaggi che aveva visto quel giorno diventarono dei quadri. Nelle stanze dei ritratti all’interno della casa studio c’erano due profili che formavano il volto di Carlo Levi”.
Oltre alla pittura Martini si dedicava anche alla scultura, per imparare era diventato apprendista da Mario, un marmista pratese che aveva la bottega vicino al Castello dell’Imperatore. I suoi soggetti sono diventati più tardi i protagonisti del Parco Museo, quelle persone semplici che Quinto aveva visto a Seano, dove era nato e cresciuto.
“Per Quinto era la gente comune, quella che manda avanti il mondo, a dover stare sui dei piedistalli – spiega Stefania -. Nel parco non ci sono opere dedicate a personaggi importanti, come scrittori, re o condottieri, perché quello spazio era stato pensato e voluto per raccontare la normalità”.
Tornato a Firenze, a partire dalla fine degli anni ’20 Quinto inizia a dedicarsi alla serie dei mendicanti. Si ispira ai saltimbanchi di Picasso del periodo blu e del periodo rosa, ma rispetto all’artista spagnolo prende un’altra direzione.
“Quinto era fondamentalmente un autodidatta, prendeva ispirazione dagli artisti che lo avevano preceduto, ma coltivava la sua passione in tutta autonomia senza seguire la moda o farne una forma di intellettualismo” dice la nipote.
Attraverso i saltimbanchi Picasso racconta la solitudine e la malinconia dell’esistenza, mentre con i mendicanti Martini celebra – più che denunciare – la povertà, che non è mai sofferenza o squallore, ma dignità della persona umana che è consapevole del proprio disagio e dell’ingiustizia sociale che vuole una costante disparità tra ricchi e poveri.
Nel 1943 Quinto espose un’antologia dei mendicanti al Lyceum di Firenze, ma per la tematica sociale considerata contraria al regime fascista la mostra fu fatta chiudere.
“Durante gli anni della guerra Quinto fu catturato dai fascisti e incarcerato a Firenze insieme a Carlo Levi. La coincidenza volle che in quella cella fosse stato incarcerato anche mio padre Aldobrando – ricorda Stefania – Quinto trovò il nome scritto sulle pareti e durante il periodo di prigionia dedicò al fratello le pagine dello scritto ‘I giorni sono lunghi’”.
Dopo la fine della guerra Quinto si diede alla poesia e alla scrittura, pubblicando alla fine degli anni ’50 ‘Chi ha paura va alla guerra’, storia di un disertore che si rifiuta di uccidere.
A partire dagli anni ’60 inizia ad avvicinarsi al tema della pioggia, colpito dall’alluvione di Firenze del 1966.
“Caratterialmente Quinto era tante cose, gentile e severo con se stesso – va avanti la nipote -. Era molto amato, soprattutto dai giovani che vedevano in lui un amico saggio, e dalla gente di Seano. Era anche molto riservato e stava molto attento a proteggersi da quello che poteva rovinarlo”.
A Seano Quinto volle alcune stanze sulla terra che era appartenuta precedentemente alla sua famiglia. “Lasciatemi due stanze, diceva, ma nessuno pensava che proprio quelle stanze avrebbero sacrificato una pianta di fico nero, che doveva avere coperto la corte”.
Il ricordo che Stefania Martini serba della casa studio è come un fermo immagine focalizzato sulle pareti velate di colore e solcate qua e là da piccoli ed impercettibili segni come rughe o cicatrici sulla pelle. Parole da leggere tutte d’un fiato: “Quelle pareti erano il passaggio tra il presente e il passato, lì nella tua casa di Seano componevi e scomponevi memorie e fatti per cavarne un’essenza da profumare il mondo (…). A volte nella penombra della prima stanza mi par di vedere mia nonna Giovanna, alta, magra, silenziosa, che viene a vedere cosa ha fatto Quinto, questo figlio diverso che l’ha amata molto (…). In quelle stanze velate di colore non si parla, si sta zitti, come in chiesa, si osserva, si ascolta; è così che anche noi possiamo fare parte del miracolo dell’arte, liberando i pensieri e le emozioni più belle”. Basta provarci. (Valentina Cirri)
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